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Archive for luglio 2012

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Scrivo di getto perché sinceramente ‘sto malcostume di gettare la croce addosso ai giocatori per due mezzi errori è davvero stucchevole, e non posso tacere.

L’errore nell’amichevole precedente l’ho visto su Youtube. Niente da dire. Giocatore pesante, stop sbagliato, zero reattività, goal regalato.

Questo di oggi, contro l’Inter, l’ho invece visto in diretta.

Campo indecente, Lucio sicuramente non si muove come dovrebbe ma non ha tutte le colpe.

Anche fosse, comunque, non è giustificabile il fatto che in rete si spendano già critiche e battute – pure pesanti – su di lui.

Lo ammetto, a me il ragazzo piace da sempre. Con sempre intendo il lontano 2000, quando arrivò a Leverkusen per, passo dopo passo, conquistare l’Europa.

Parliamo di un giocatore con carattere e personalità assolute.  Un ragazzo che in carriera si è laureato Campione del Mondo sia di club che con la nazionale. Che ha un palmares da fare invidia (oltre ai due Mondiali anche due Confederations, tre campionati tedeschi, 2 coppe di lega e tre coppe di Germania, un campionato italiano, due coppe Italia, una supercoppa nostrana e una Champions) e che non può essere additato come un “molle” cui probabilmente “pesa la maglia che indossa ora”, come è stato detto da più parti stasera.

Lucio ha dei limiti evidenti, che però non si possono far risalire al fatto che subisca troppo la pressione. Anzi, spesso pecca proprio di troppa sicurezza, al massimo.

Ma in Italia c’è questo mal vezzo di bollare tutti come scarsi o bolliti dopo due errori. Ed è così che si bruciano i giocatori.

A Torino dovrebbero ricordarselo bene, per altro. Mimmo Criscito e l’errore su Totti non ricorda nulla a nessuno?
Quanto fu massacrato il ragazzo, che finì praticamente lì la sua esperienza in Bianconero?

Logico, Lucio non farà la stessa fine. Perché è un giocatore già formato, sia tecnicamente che mentalmente.

Però… però ha una certa età, certo è in fase calante… forse un po’ di supporto in più lo meriterebbe, soprattutto al 21 luglio, in piena “pre temporada”…

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Della crisi che attanagli l’Europa non devo certo parlarne io.

Dopo il semi-crack greco, con allarme non ancora rientrato, pare si stiano avvicinando ad ampie falcate al default economico anche altri paesi, come Italia, Portogallo ed Irlanda.

Ma non solo.

Tra i paesi in netta difficoltà qui nel Vecchio Continente (e l’età ormai evidentemente sta iniziando a pesare) vi è anche quella Spagna che da qualche anno a questa parte sta dettando legge a livello calcistico. Sia con la propria Nazionale che con i club, Barcellona in particolar modo.

In tempi di crisi così forte ci si aspetterebbe però che anche il calcio ne risentisse. Quantomeno a livello economico, se non tecnico.

Eppure mentre in Italia anche le grandi squadre sembra stiano tirando un po’ i remi in barca (emblematico il caso Milan) c’è chi, altrove, viaggia controcorrente e a gonfi vele.

E non parlo tanto dei casi rappresentati da quelle squadre che sono in mano agli sceicchi (non avrebbe senso). Quanto più di chi nonostante un paese sull’orlo del fallimento riesce ad aumentare gli introiti, ridurre le spese aumentando quindi così l’utile d’esercizio. A livelli da record.

Di chi sto parlando?

Ma del Barcellona, ovviamente. Società che è sempre più la stella polare del calcio odierno.

Capace di esprimere un calcio sensazionale, di segnare un’epoca, di costruirsi i campioni in casa il Barça sta anche affinando le proprie doti di gestione economica.

Così dopo due stagioni chiuse in rosso i catalani hanno fatto registrare quest’anno un guadagno netto di quasi 50 milioni di euro, 48.8 per la precisione.

Il tutto riuscendo a incrementare le proprie entrate di 21.5 milioni (arrivando a sfiorare i 500 milioni di introiti annui, il doppio delle nostre big) abbassando nel contempo le spese di ben 30 milioni (oggi a quota 440).

Idee, blasone e talento catalano contro il petrolio arabo. Voi per chi tifate?

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Spagna – Francia, riedizione del quarto di finale dell’ultimo Europeo.

In questo caso, però, si tratta di una semifinale, e siamo a livello di under 19.

Si fronteggiano comunque due grandissime squadre, nonché scuole calcio.

Da una parte l’ormai pluridecorata Spagna, che oltre ad aver imposto il proprio dominio a livello di nazionale maggiore con due Europei ed un Mondiale nell’arco di quattro anni continua a dettar legge anche a livello giovanile.

Dall’altra una Francia che anche grazie al grande apporto ricevuto da immigrati e colonie riesce sempre a presentare nazionali, in special modo giovanili, interessanti, piene di giocatori già formati in particolar modo da un punto di vista fisico-atletico.

Transalpini che si schierano col 4-4-2 con la riserva di Salvatore Sirigu tra i pali, Areola, una linea difensiva a quattro composta da Foulquier, Samnick, Umtiti e Digne ed un centrocampo arricchito dalla presenza di Veretout, Ba, Pogba e Kondogbia. In attacco, quindi, Bahebeck a supportare Vion.

Classicamente spagnola, invece, la disposizione in campo delle Furie Rosse, che esattamente come la nazionale maggiore giocano senza una vera punta di ruolo, relegando capitan Juanmi in panca.

Così Lopetegui schiera Arrizabalaga a difesa dei pali con Joni terzino destro e Grimaldo sull’out opposto. Ramalho ed Osede sono i centrali di difesa. A dare dinamicità al centrocampo ci pensano invece Campana e Torres, con Niguez libero di inventare. Il tridente, “tipicamente atipico”, vede infine la presenza di Deulofeu, Jesé Rodriguez e Suso.

Al terzo minuto di gioco Pogba, capitano della nazionale francese e promesso sposo juventino, rischia di perdere palla incaponendosi un po’ troppo in tocchi leziosi al limite per poi tagliare benissimo la difesa con un tocco filtrante, cercando lo scatto di Bahebeck. Che però non capisce, e non sfrutta l’occasione di portare subito avanti i suoi.

E’ comunque una Spagna che palesa tutti quei limiti che aveva già mostrato nella Fase Elite contro l’Italia, in una partita in cui una nazionale Azzurra con tante defezioni (ancora devo capire perché i vari Romanò, Crisetig e compagnia restarono a casa) rischiò quasi di battere i parietà iberici.

E’ infatti da subito la Francia, guidata dai sapienti piedi di Paul Pogba, a cercare il possesso di gioco. Non solo: gli spagnoli sono da subito timorosi e anziché aggredire con la loro classica veemenza il portatore di palla restano schiacciati nella propria trequarti.
Il tutto non certo per una scelta tecnico-tattica impostata dall’alto: si sentono infatti chiare in tutto lo stadio le voci di Lopetegui, che continua ad incitare i suoi ad uscire in pressing.

Spagna che intorno al quarto d’ora prova quindi a rialzare la testa e si fa in effetti subito pericolosa. Samnick, difensore dalle potenzialità interessanti ma un po’ troppo portato all’intervento in scivolata, fa fallo sul lato destro della sua area di rigore. Capitan Campana si porta quindi sul punto di battuta e centra un pallone che Osede incorna di testa, mandando però di poco alto sopra la traversa.

Reazione immediata della Francia, con Foulquier che crossa dalla trequarti ma vede il suo pallone respinto da un difensore. La palla si impenna e quando cade è colpita al volo da Veretout, che si coordina benissimo ma trova pronto Arrizabalaga.

Gli spagnoli faticano quindi ad imporre il proprio gioco, non riuscendo a mettere in campo il loro classico “tiki-taka”.
Nonostante questo le capacità tecniche non mancano, come dimostrano intorno al ventiquattresimo minuto quando Deulofeu converge da sinistra ed appoggia a Niguez che, in posizione di centravanti, libera subito di prima intenzione Jesé Rodriguez, imbeccato nello spazio tra Samnick e Foulquier: stop e tiro immediato, grande risposta di Areola.

Come si dice, però, il calcio è spietato e la legge non scritta “goal sbagliato, goal subito” si fa sentire spesso.

Così i Bleus provano a riportarsi avanti e affondano con Foulquier, che è però chiuso in angolo una volta penetrato in area di rigore. Sulla bandierina si presenta Bahebeck che centra il pallone sul secondo palo dove Pogba decolla sopra la testa del diretto marcatore – Ramalho, uno dei due centrali – per colpire secco sul secondo palo, trovando il corpo di Osede. Che respinge senza nemmeno volerlo e soprattutto senza controllare il pallone, permettendo a Umtiti di avventarcisi e bucare Arrizabalaga per l’1 a 0.

Da lì alla fine del primo tempo la Francia, che dopo la mezz’ora perderà Bahebeck per infortunio (sostituito da Bosetti), andrà in totale controllo della partita, riuscendo a non lasciare grandi occasioni agli avversari e giochicchiando senza grandissime pretese il pallone.

La ripresa si apre un po’ sulla stessa falsariga. Con la Spagna che riesce quindi a rendersi pericolosa solo dopo dieci minuti di gioco, e su corner: Deulofeu centra, Osede stoppa in mezzo all’area e calcia male cercando il secondo palo con Ramalho che ci mette il tacco per provare a correggere dentro lo specchio di porta, senza fortuna.

Il pareggio arriverà comunque di lì a poco.

All’ora di gioco la Spagna trova il varco giusto, partendo da lontano. Osede recupera un pallone lanciato in una zona di campo morta e lo consegna a capitan Campana, che scende fin sulla propria trequarti per far ripartire l’azione. Tre passaggi dopo è Alcacer, appena entrato al posto di Suso, a trovarsi la palla tra i piedi sulla trequarti avversaria, resistere alla pressione Pogba e far partire un filtrante che s’infila nello spazio tra Samnick e Foulquier, dove Deulofeu è bravo ad infilarcisi per andare a freddare l’uscita poco convinta di Areola. 1 a 1.

Il goal subito affossa un pochino, mentalmente, i francesi. Che iniziano a scricchiolare.
Provano ad approfittarne gli iberici, con Deulofeu che al settantaduesimo salta il diretto marcatore (Samnick) sulla trequarti e fa partire un tiro sporco, non certo irresistibile, che finisce sul palo alla sinistra di un Areola che aveva battezzato fuori la traiettoria.

Il mattone sulla faccia dei transalpini ce lo mette quindi lo stesso Alcacer, che dopo aver servito a Deufoleu l’assist del pareggio sfrutta il cattivo posizionamento della difesa francese per andare a depositare in rete il cross di Grimaldo. Con Umtiti che stringe troppo sul primo palo e si fa sorpassare dal pallone e Digne che non fa la diagonale.
Dodici dal termine, Spagna che ribalta il risultato: 2 a 1.

La mattonata in faccia risveglia i Galletti, che si riversano all’attacco. Lasciando però voragini dietro.
Passa poco più di un minuto dal goal di Alcacer che lo stesso Paco parte in contropiede e filtra per Deufoleu, che si trova al limite dell’area con, sul destro, il colpo del K.O.

La giovane star della Masia, però, non è abbastanza fredda, cerca ancora di battere Areola con un tocco alla sua sinistra ma questa volta il portiere di origine filippina del PSG si distende con convinzione, bloccando il pallone e tenendo vive le speranze dei suoi.

Per provare a recuperare una situazione nera più che grigia Mankowski consuma gli ultimi due cambi, inserendo Ngando e Plea in luogo di Ba e Veretout.

E i frutti potrebbero essere raccolti all’ottantasettesimo quando la difesa spagnola dimostra tutti i suoi limiti sui calci piazzati: palla sul secondo palo, Samnick la sbuccia di testa ma finisce proprio sui piedi di Umtiti che calcia di prima intenzione con decisione trovando però, dritto per dritto, l’opposizione di Arrizabalaga.

Il goal è però nell’aria e a segnarlo, ricordando un po’ la semifinale Mondiale del 98, è ancora un difensore: Samuel Umtiti. Che sfruttando un batti e ribatti da corner si trova il pallone ad un passo dalla porta e non deve fare altro che depositarlo in rete trovando quel pareggio che spedisce le due squadre ai supplementari.

Eppure nell’ultimo minuto di recupero il solito Deulofeu avrebbe la possibilità di qualificare i suoi alla finalissima: partendo da larghissimo a sinistra scatta in velocità e si accentra seminando il panico nella difesa avversaria e scaricando palla a Rodriguez, per poi sovrapporglisi sulla destra creando un corridoio buono. Ricevuto il passaggio di ritorno del compagno madridista, però, Deulofeu difetterà ancora una volta con la conclusione, moscia e centrale, facile preda di Areola.

Pochi i sussulti nel primo tempo supplementare. Giusto allo scadere Alcacer è imbeccato bene in area ma a pochi passi dalla porta calcia contro Areola, trovandone la pronta opposizione.

Nella ripresa però la Spagna passa ancora. Bosetti gestisce male palla al limite dell’area e fa scattare un contropiede fulminante con Alcacer che prende palla nel cerchio di centrocampo e punta l’area in velocità. Giunto al limite serve quindi, alla sua sinistra, Deulofeu, che stavolta trova la porta, bucando Areola per il 3 a 2.

La Francia però non ci sta e attacca. La Spagna ha una difesa più che perforabile. Così al centosedicesimo minuto di gioco Digne centra da sinistra, Ramalho buca l’intervento in scivolata e Pogba s’infila dietro a tutti sul secondo palo, realizzando in spaccata. 3 a 3.

Si finisce quindi ai rigori.

Campana: alto
Pogba: goal
Suarez: goal
Plea: goal
Rodriguez: goal
Umtiti: parato
Alcacer: goal
Kondogbia: parato
Deulofeu: goal

Dove ad imporsi, grazie agli errori dei mancini Umtiti e Kondogbia, è la Spagna. Che arriva quindi in fondo anche a questo torneo continentale, confermandosi come la prima forza Europea ad ogni livello.

Aiutata, in questo caso, dalla fortuna.

Venendo rapidamente ai singoli… male Deulofeu, tra i giocatori più forti e attesi di questa nazionale, per un’ora di gioco. Quando si accende, però, sono dolori, e cambia la partita da solo.

O meglio, la cambia in coppia con Alcacer, che entra nella ripresa ed è assolutamente decisivo.

Male invece la difesa, dove i due difensori centrali non danno mai impressione di essere troppo affidabili ed in cui i terzini non contribuiscono alla fase difensiva se non col compitino.

Nella Francia restano invece interessanti le qualità di alcuni giocatori come Areola (da capire però dove possa arrivare), Digne (il Debuchy della mancina), Samnick (doti atletiche di primissimo livello) e Pogba, che ora dovrebbe sbarcare a Torino.

Dove, se ricalcasse quanto fatto vedere in questo Europeo, si vestirebbe da vice-Pirlo.

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Oggi ho parlato dei soldi che il Milan risparmierebbe cedendo Thiago Silva ed Ibrahimovic e soprattutto ho spiegato perché i Rossoneri hanno rifiutato l’offerta che avrebbe portato il solo brasiliano a Parigi per accettare poi quella che porterebbe entrambi sotto la Tour Eiffel.

Adesso facciamo un altro passo in questo senso e proviamo ad ipotizzare cosa ne sarebbe del Milan una volta chiuse la doppia cessione.

Logico che parte dei soldi incassati cash per i trasferimenti e di quelli risparmiati sull’ingaggio andrebbero reinvestiti per rinforzare una squadra che, altrimenti, non partirebbe nemmeno per giocarsi una lotta Scudetto.

E allora tra i nomi che si fanno (Ogbonna, Astori e Dodò per la difesa, Dzeko, Destro e Tevez per l’attacco) prendiamone due che possano in qualche modo coprire i buchi lasciati dai partenti… e quindi Ogbonna, centrale già in nazionale e comunque futuribile, e Tevez, che rappresenterebbe invece una delle poche certezze di quel Milan.

E facciamoci due conti.

Stamattina, anche ricalcando quanto tratteggiato dalla Gazzetta, parlavo dei 170 milioni globali che il Milan si troverebbe in più in tasca se si pensa tanto al cash incassato al momento delle cessioni quanto ai soldi risparmiati dagli stipendi.

170 milioni che andrebbero reinvestiti solo in parte.

I conti si fanno presto.

Ogbonna costerebbe sui 15 milioni. Ammortizzati dall’inserimento di contropartite, certo. Ma il valore effettivo sarebbe quello, arrotondato per eccesso (si parla di 14, per la precisione).
Cui andrebbe aggiunto un quinquennale da 2,5 milioni (netti), secondo quanto dice radiomercato.

Tevez costerebbe, secondo valutazione, 25 milioni di euro e pretenderebbe un totale di quasi 15 milioni (lordi) di ingaggio l’anno.
Avendo ancora solo 28  bisognerebbe poi fargli come minimo un triennale, se non un quadriennale.

Quindi… per Ogbonna bisognerebbe affrontare un investimento totale di 40 milioni. Cui dovrebbero essere aggiunti i 70 da spendere per Tevez (tenendo conto solo di un triennale). Per un totale di 110 milioni spesi, a fronte dei 170 guadagnati/risparmiati con la cessione dei due top player.

Che fanno, su scala quinquennale (contratto di Silva attuale, eventuale contratto di Ogbonna qualora arrivasse), 60 milioni di euro risparmiati in totale, praticamente 12 milioni di risparmio all’anno.

Un risparmio relativo, se si pensa che il deficit accumulato nel 2011 fu pari a 67 milioni di euro. Un risparmio che, quindi, non permetterebbe al Milan di arrivare ad un ipotetico pareggio di bilancio anche qualora le entrate dovessero mantenersi allo stesso livello dello scorso anno (tutto da vedere, dato che se cedi i tuoi top player potresti avere meno abbonamenti e meno gente che viene allo stadio ad ogni match, per dire).

Vero è che a questo risparmio andrebbe aggiunto quello che si formerà, nel complesso, con l’addio della vecchia guardia e l’arrivo di alcuni sostituti, che difficilmente finiranno con l’andare a costituire un monte ingaggi a livello di quello della scorsa stagione.

Tirando le conclusioni: ha senso che il Milan si indebolisca (perché è indubbio dire che oggi la coppia Ogbonna-Tevez non vale, nel complesso, Thiago-Ibrahimovic) per andare a ricucire solo parzialmente (praticamente per un quinto) il proprio deficit annuale?

A voi l’ardua sentenza…

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Negli ultimi giorni c’è una domanda che impazza letteralmente sui social network come Facebook e Twitter: perché il Milan ha rifiutato l’offerta da 42 milioni per Thiago Silva per poi rifiutarne una da 42+20 per il pacchetto Silva-Ibrahimovic, accettando così un’offerta per il difensore brasiliano identica a quella rifiutata meno di un mese fa?

E’ presto detto.

Cedere Thiago Silva significherebbe farsi scoppiare in casa una bomba ad orologeria che, guarda caso, porta proprio il nome di Zlatan Ibrahimovic.

Perché lo svedese è stato più volte chiaro: vuole vincere. E per vincere bisogna investire. O, quantomeno, non cedere i propri pezzi migliori.

Lasciar partire Thiago Silva, quindi, vorrebbe dire veder letteralmente insorgere l’attaccante ex Juventus ed Inter, che sappiamo non essere tanto un tipo dalle mezze misure ed i modi troppo cortesi.

Perché cedere il centrale brasiliano significherebbe, almeno nell’ottica-Ibra, abdicare al ruolo di grande squadra in maniera definitiva in Europa e quasi sicuramente anche in ambito nazionale.

Una cosa che l’ego di Zlatan sicuramente non potrebbe accettare.

Visualizziamo la situazione: il Milan cede Thiago Silva al PSG per 42 milioni, parte dei quali servono a coprire i buchi di bilancio. E, coi soldi rimanenti, sistema una difesa letteralmente sventrata dalle partenze di Silva e Nesta. Prendendo, ad esempio, Ogbonna e Kolarov (due nomi che circolano davvero in ottica mercato Rossonero, staremo a vedere).

Ibrahimovic è però scontento e dice chiaramente a Raiola di non voler più restare a Milano. Di volersi cercare un’altra destinazione.

E quando si impunta lui non ce n’è.

Anche ipotizzando che ceduto Thiago Silva il Milan non abbia la necessità di bilancio di fare ulteriore cassa è logico che di fronte ad un out-out di questo tipo Galliani dovrebbe fare un passo indietro e mettersi a cercare un acquirente per Ibrahimovic.

Che col maxi contrattone biennale da 12 milioni a stagione che si porta dietro ed un’età non più verdissima (oltre che un’idiosincrasia marcata nei confronti dei tornei internazionali) non è così tanto appetibile sul mercato.

A quel punto, col giocatore in rivolta, la sua valutazione calerebbe drasticamente ed una sua eventuale cessione equivarrebbe ad una svendita del cartellino.

Ed è logico che far accettare ai tifosi Rossoneri, fino a pochi anni fa protagonisti di mercato e Champions League, un ridimensionamento così pesante di squadra ed ambizioni non sarà facile di per sé, figuriamoci come possa esserlo di fronte alla svendita di una delle due star.

Evidentemente Galliani, che è manager scaltro e che sa il fatto suo, questi conti in tasca se li è fatti prima di tutti e ha trovato una sola possibile via di fuga: di fronte all’impossibilità, pur per motivi diversi, di tenere Thiago Silva ed Ibrahimovic cercherà di limitare i danni.

Vendendo i due “in bundle”.

Operazione per altro faraonica che porterà nelle casse Rossonere un totale di 170 milioni tra cash e soldi risparmiati: i 62 della doppia cessione più i 48 lordi risparmiati non dovendo onorare il biennale a 12 netti l’anno di Ibra e i 60 lordi che comporterebbe il fresco quinquennale a firmato da Thiago Silva.

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Inutile nascondersi dietro a un dito.

Questo è un momento storico per il calcio russo.

E’ oggi, infatti, che andrà lanciata la volata al Mondiale 2018, quello che verrà giocato – per la prima volta – proprio in casa loro.

Per questo la Federcalcio Russa sta scegliendo con cura quello che dovrà essere il successore di Dick Advocaat, che ha chiuso il suo biennio nell’estremo est Europa con il fallimento all’ultimo Europeo (dove la sua squadra da favorita del girone ha finito col non passare il turno).

Del resto non si scherza.

Ci sono sei anni per preparare un appuntamento che il popolo russo – almeno quello amante del pallone – aspetta da sempre.

In questo senso la Federazione sta cercando di avere la massima trasparenza. Non per nulla è arrivata a pubblicare sul proprio sito ufficiale la rosa di papabili allenatori tra cui verrà scelto il prossimo Commissario Tecnico.

Una rosa che conta ben 13 nomi e tra cui spiccano alcune personalità illustri, un paio anche italiane.

Ovviamente, però, la lista non si limita ai grandi nomi, quelli che hanno fatto la storia calcistica – recente – dell’occidente europeo.

Scorrendo la lista possiamo infatti trovare nomi come Anatoliy Byshovets, Valery Gazzaev, Andrei Kobelev, Yuri Krasnozhan, Valery Nepomniaschy, Nikolai Pisarev e Yuri Semin.

Ma non solo.

Quelli che stuzzicano di più la fantasia sono infatti i nomi degli allenatori più blasonati, com’è logico.

Vediamoli.

Innanzitutto Marcelo Bielsa. Che per mantenere fede al suo soprannome (“Loco”, “Pazzo”) ha da poco interrotto il proprio matrimonio sportivo con l’Athletic Bilbao, club che aveva trascinato a suon di bel calcio fino alle finali di Coppa del Re ed Europa League.

Interruzione arrivata a pochissimi giorni dalla firma del rinnovo di contratto. Spaccatura che, si dice, è nata da alcune divergenze riguardanti la ristrutturazione del centro tecnico del club.

Bielsa che conosce bene il mondo delle Nazionali avendo già allenato in passato l’Argentina (dal 1998 al 2004) ed il Cile (nel quadriennio 2007-2011).

Bielsa che è anche un allenatore tanto particolare dal punto di vista umano quanto sapiente da quello tattico. Essendo un vero e proprio maestro in questo senso.

In più il “Loco” ha dimostrato anche in quel di Bilbao di saper lavorare alla grande coi giovani. E per una nazione che ha alcuni talenti importanti (come Dzagoev, per citarne uno che si è molto ben comportato in Polonia-Ucraina) da far crescere sino ad arrivare al Mondiale ecco che la sua è sicuramente una candidatura con un perché.

Bielsa che è per altro un allenatore seguito, nel recente passato, anche da alcuni club italiani.

Esattamente come quel Rafael Benitez che un’esperienza – a dire il vero piuttosto fallimentare – nel Belpaese l’ha già avuta e che fino a poche settimane fa era in contatto con la neopromossa Sampdoria.

Fallimento interista a parte Benitez resta comunque un ottimo allenatore, vincente un po’ ad ogni livello. Dal calcio giovanile (uno Scudetto e due coppe di Spagna con l’under 19 madridista) alla Champions League (col Liverpool) passando per i due campionati vinti in quel di Valencia il valore di Rafa non si discute.

Tra i papabili anche un altro spagnolo, anche più in voga del buon Benitez. Josep Guardiola, ormai ex allenatore del Barcellona con cui ha saputo vincere tutto esprimendo un calcio che segnerà per sempre questo gioco.

Logico, con questi presupposti, che una Federazione ambiziosa come quella russa sia interessata a lui. Che in tutto questo discorso potrebbe forse essere il favorito, almeno da un punto di vista di gradimento.

Tutto sta nel capire se ci sono veri margini di trattativa.

Non ha invece esperienza internazionale marcata, non avendo mai allenato al di fuori del proprio paese, Harry Redknapp, allenatore che dopo quasi una decade al Bournemouth e sette anni al West Ham ha avuto esperienze importanti con Portsmouth e Southampton prima di sbarcare a Londra, sponda Tottenham.

Spurs che ha abbandonato solo quest’anno, dopo un quadriennio comunque ricco di soddisfazioni.

In Inghilterra ci ha allenato anche Fabio Capello, che di esperienza ne ha invece da vendere.

L’ex allenatore di Milan e Juventus ha infatti vinto un po’ tutto a livello di club e ha anche alle spalle gli anni da C.T. della Nazionale inglese. Insomma, un bagaglio di conoscenze ed esperienze che pochissimi altri suoi colleghi al mondo possono vantare.

Logico che con un curriculum del genere, e con la stima di tutto il mondo pallonaro mondiale, uno come lui non possa passare inosservato alla Federcalcio russa.

L’ultimo nome, sempre nostrano, è quello di Marcello Lippi, che di nazionale se ne intende.

Campione del Mondo nel 2006 a Berlino, ha guidato la Juventus a tantissimi trionfi tanto in campo nazionale quanto internazionale.

Recentemente, con l’approdo in Cina, ha anche dimostrato una certa apertura

verso le nuove frontiere del mondo del pallone.

Logico, in questo senso, che non potrebbe restare insensibile al progetto russo.

Lo scoglio, semmai, può essere l’ingaggio che percepisce dall’Evergrande. Già faraonico di per sé.

Soluzione interna o nome blasonato dall’estero?

Vedremo. Quello che è certo è che i dirigenti russi devono farsi bene i conti in tasca.

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Handanovic, Silvestre, Palacio ed il riscatto di Guarin. Più quello probabile di Poli. Più le voci su Krasic, Lucas, Paulinho, Destro. Il segno di un’Inter che dopo le difficoltà post-Mourinho e post-Triplete vuole davvero rifondare da zero o quasi.

I protagonisti di quella storica stagione che si chiuse con i trionfi della primavera 2010 stanno infatti, piano piano, prendendo tutti un’altra strada.

Lucio si è già accasato altrove, a breve toccherà fare altrettanto a Stankovic, Julio Cesar e Maicon.

Ma non solo: nelle ultime due stagioni non hanno girato anche alcuni dei giocatori acquistati dopo quei grandi trionfi, come quel Diego Forlan che dopo le grandissime cose fatte vedere in Colchoneros ed in Nazionale ha bucato clamorosamente a Milano, trasferendosi dopo una sola stagione in Brasile.

E a partire, nei prossimi giorni, potrebbero essere anche Ranocchia e Pazzini. Due ragazzi che solo un anno fa erano arrivati a Milano circondati da grandissimo entusiasmo e salutati come il punto di partenza di una nuova Inter: giovane e soprattutto più italiana.

Le cose per loro, però, non sono mai andate benissimo.

L’attaccante ex Doria, ormai 28enne, è ancora alla ricerca del definitivo salto di qualità (che a questo punto potrebbe anche non avvenire mai). Giunto a Milano dopo le ottime cose fatte vedere in Liguria (48 goal in 87 partite ufficiali) sembrava dovesse solo confermarsi in una big, guadagnandosi così un posto fisso in nazionale.
All’Inter, però, il suo score parla di 19 goal in 60 partite. Non stupisce, quindi, che Prandelli l’abbia lasciato a casa all’ultimo Europeo.

Ranocchia invece è riuscito a vedere il campo solo una quarantina di volte, chiuso dai mostri sacri della difesa interista. Va detto che quando è riuscito a giocare le sue prestazioni non sono comunque state all’altezza di quella mezza stagione giocata a Bari prima dell’infortunio che lo incoronarono come colui che avrebbe dovuto raccogliere l’eredità di due mostri sacri come Nesta e Cannavaro al centro della difesa Azzurra (cosa che non gli è riuscita ancora oggi, con Barzagli, Chiellini e Bonucci che nelle gerarchie prandelliane gli stanno nettamente davanti).

Che fare, dunque, per provare a rilanciarsi?

Cambiare aria potrebbe essere la soluzione ottimale.

Intendiamoci, con Stramaccioni la nuova Inter potrebbe prendere una fisionomia molto diversa un po’ in tutti i sensi, rappresentando un trampolino per il rilancio di Pazzini e la consacrazione di Ranocchia.

Dopo diciotto mesi spesi male, però, entrambi i ragazzi potrebbero necessitare di una cambiamento drastico proprio per avere nuova linfa.

Il punto, nel momento in cui decidano di cambiare, sarebbe però trovare la squadra che più possa metterli in considerazione di rendere secondo le loro possibilità.

In questo senso sembra ormai comunque scontata la partenza di Pazzini, che giusto ieri sera ha detto di non sentirsi più parte integrante del progetto Nerazzurro.

Se davvero partirà non è ancora detto, ma ci sono voci che iniziano a paventare un’idea abbastanza particolare: scambio con lo juventino Krasic.

Uno scambio che potrebbe fare sicuramente bene all’Inter, che vedrebbe partire un giocatore assolutamente demotivato e potrebbe nel contempo rivitalizzare l’ala serba assolutamente atterrita dall’ultima – pessima – annata in Bianconero.

Ma che forse non sarebbe il top per Giampaolo, che rischierebbe di fare il doppione del già non titolarissimo Matri.

Il tutto, si intende, ad oggi. Perché qualora Matri partisse (si parla di un suo possibile inserimento nell’eventuale affare Jovetic) lo spazio potrebbe sicuramente aumentare.

In tutto questo, però, difficile che Pazzini potrebbe arrivare a Torino da pseudo titolare.

Ecco perché l’ipotesi tecnica migliore risulta essere quella che lo rivorrebbe sulla sponda Blucerchiata di Genova, dove il neo allenatore Ferrara ha speso parole molto positive nei suoi confronti.

L’ostacolo, in questo caso, sarebbe di tipo economico, con una valutazione del cartellino del ragazzo fuori portata ed un ingaggio assolutamente non in linea coi parametri della società dei Garrone.

La Sampdoria, però, potrebbe essere la squadra ideale in cui rilanciarsi: apprezzato dall’ambiente, amato dai tifosi, tornerebbe lì dove meglio ha saputo esprimersi in carriera. Certo, senza Cassano a fornirgli assist. Ma peggio che a Milano difficilmente farebbe.

Diverso invece il discorso inerente Ranocchia, anch’esso negli ultimi mesi accostato alla Juventus.

Che dopo le belle cose fatte vedere con Ventura a Bari, dove solo un infortunio non gli permise di chiudere un campionato giocato fin lì ad altissimo livello per strappare poi una partecipazione al Mondiale 2010, sta stentando un po’ a ritrovarsi.

Per lui siamo forse all’ultimo appello.

Ventiquattro anni, fondamentali importanti, deve esplodere. Ora o mai più.

Le squadre che si stanno muovendo con convinzione su di lui sono PSG e City. Entrambe straniere ma, guarda caso, entrambe allenate da due tecnici italiani, che conoscono quindi bene il suo valore.

E chissà che trasferendosi in una delle due il nostro non riesca a strappare un posto da titolare ed accumulare quell’esperienza anche internazionale che possa davvero portarlo ad affermarsi anche in Azzurro.

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E’ una squadra molto ben organizzata quella che Pierre Mankowski appronta per l’esordio della sua rappresentativa francese under 19 agli Europei di categoria.

Molto quadrati, i Galletti si mangiano in un sol boccone i parietà serbi metti in mostra alcune individualità importanti. Due, in particolar modo, con un futuro italiano che pare scritto: Pogba, praticamente acquistato per questa nuova stagione dalle Juventus, e Kondogbià, che radiomercato ci dice essere stato praticamente già precettato dalla stessa società di Corso Galileo Ferraris ma per il 2013.

Squadra ben messa in campo, dicevamo, questa Francia, dove sono come sempre i colored a farla da padroni.

Il tutto a partire dalla porta, protetta dal franco-filippino Areola (PSG). Classica difesa a quattro, con Dimitri Foulquier (origini della Guadalupa, due presenze a Rennes) a destra, Richard-Quentin Samnick (Camerun, attualmente al PSG) e Samuel Umtiti (camerunense anche lui, oggi gioca a Lione) in mezzo e Lucas Digne, uno dei pochi bianchi della squadra, a sinistra (il suo club è il Lille).

Tre i centrocampisti centrali, molto mobili ed interscambiabili di modo da non dare punti di riferimento agli avversari: Paul Pogba, guineano che sta per trasferirsi dallo United alla Juve, Geoffrey Kondogbià, centraficano del Lens, e Jordan Veretout, già più di quaranta presenze in quel di Nantes, dove è diventato titolare fisso nel corso dell’ultima stagione.

Le ali offensive, chiamate comunque a puntuali ripiegamenti, sono quindi Jean-Christophe Bahebeck, anche lui di origine camerunense con già quasi 30 presenze all’attivo con la maglia del Paris St. Germain, e Alassane Plea, ennesimo colored di questa squadra che ha recentemente firmato un contratto da “pro” col suo Olympique Lione.

La punta, unico vero riferimento offensivo, è, infine, Thibaut Vion, nativo di Mont-Saint-Martin ma di proprietà del Porto, che lo prelevò dal Metz.

Una specie di corazzata questa squadra, almeno se rapportata all’approssimazione messa in campo dai ragazzi di Zoran Maric, che si sono dimostrati assolutamente non all’altezza della situazione lungo tutto il corso del match.

Dopo un quarto d’ora di forcing leggero ma costante la Francia apre quindi le marcature: il probabile neo-juventino Pogba pennella in mezzo all’area un calcio di punizione che finisce giusto sulla testa di un solissimo Samnick, per il quale è un gioco da ragazzi girare in rete il pallone firmando l’1 a 0.

Nemmeno dieci minuti e i Transalpini raddoppiano.

A illuminare il gioco è ancora lui, il capitano di questa nazionale, Paul Pogba. Che agendo in zona trequarti riesce a tagliare dentro un ottimo pallone per Bahebeck il cui scatto è tanto bruciante da costringere Pajovic all’uscita scomposta, che vale rigore ed ammonizione.

Sul dischetto si presenta quindi lo stesso Pogba, che spiazza l’estremo difensore avversario con grande freddezza.

Il 3 a 0 arriva solo alla mezz’ora, ed è la pietra tombale di una partita senza storia.
Ed è un 3 a 0 che mette in mostra tutte le lacune di una squadra, la Serbia, veramente molto limitata sotto ogni punto di vista.

Dapprima è capitano Mijailovic a sbagliare un rinvio semplicissimo, concedendo palla sulla trequarti a Plea, il cui tiro immediato è respinto in qualche modo, certo non in maniera pulita e composta, da Pajovic. Anche qui dormita generale della difesa, con Vion che s’avventa sulla palla e ribatte verso la porta dove l’estremo difensore serbo avrebbe la possibilità di parare facilmente, ma riesce a sbucciare un pallone praticamente già tra le sue mani.

Con il massimo risultato raggiunto a fronte del minimo sforzo profuso, quindi, la Francia tira un po’ i remi in barca e lascia che la Serbia rialzi un pochino la testa.

Negli ultimi minuti della prima frazione di gioco, così, la nazionale dell’est cerca di costruire qualcosina, senza però riuscire mai ad impensierire Pogba e compagni.

La ripresa segue quindi un po’ la stessa falsariga: i francesi controllano e ogni tanto provano a pungere, i serbi, colpiti a morte, provano a rialzare la testa, senza però riuscire a fare male.

La pochezza di questa Serbia si vede anche al cinquantaquattresimo minuto quando Mitrovic può battere una punizione da posizione favorevolissima (centrale, a circa 18 metri dalla porta) calciando però nettamente alto sopra la traversa.

La pericolosità resta quindi appannaggio dei Bleus che all’ora di gioco sfiorano il 4 a 0 con Kondogbià che fugge a sinistra per centrare un pallone su cui Bahebeck, in spaccata, non arriva per un soffio, a Pajovic praticamente già battuto.

Se mai ce ne fosse bisogno a mettere la parola “fine” sulla partita ci pensa Mitrovic che al sessantaseiesimo, e dopo aver sbagliato poco prima l’occasione migliore per siglare il goal della bandiera, entra a contatto con Kondogbià e, effettivamente trattenuto dal giovane Sang et Or, reagisce violentemente, liberandosi della presa in maniera eufemisticamente brusca e guadagnandosi gli spogliatoi anzitempo.

Francia che ad un quarto d’ora dal termine troverebbe davvero la quarta rete col neo entrato Axel Ngando (giovane centrocampista del Rennes seguito da Juventus, City e Tottenham) che ben imbeccato dal solito Kondogbià batterà sì Pajovic ma in posizione di presunto fuorigioco.

Il resto del match non riserverà quindi altre grandi emozioni, con la Francia che guadagnerà così i primi tre punti di questo suo Europeo (poi diventati subito sei con la vittoria per 1 a 0 contro la Croazia nel corso della seconda giornata).

Transalpini, come detto, squadra molto interessante con una difesa discretamente robusta (le statistiche, del resto, parlano di 0 goal subiti in 2 partite) in cui spicca il terzino sinistro Lucas Digne, che un po’ mi ricorda un Debuchy della mancina.

Qualche problemino in fase difensiva, in effetti, l’ha dimostrato, questo anche perché non provvisto della dominanza atletica dei suoi tanti compagni di colore (che, come sappiamo, solitamente maturano prima da questo punto di vista).

Digne, però, ha messo in mostra altre qualità interessanti: molto dinamico, ama appoggiare la manovra offensiva con continuità, si propone con costanza, sa avanzare bene palla al piede, se la cava nell’uno contro uno, è insomma un prospetto da tenere d’occhio.

Interessantissimo anche, a centrocampo, il duo di possibili futuri bianconeri Pogba-Kondogbià, col primo che agisce prevalentemente in posizione di regista-schermo davanti alla difesa (alla Pirlo, per intenderci) ed il secondo che parte in posizione di mezz’ala sinistra.

Il tutto sulla carta, perché poi i due, per non dare punti di riferimento, amano anche scambiarsi molto, fermo restando i ruoli principali che ricoprono. Non sorprende quindi vedere spesso Kondogbià stazionare nel centro esatto del campo con Pogba più libero di svariare sia per creare spazi, che per cercarsi il pallone che, semplicemente, per non dare riferimenti.

Un’intesa, quella tra i due centrocampisti francesi, che balza subito all’occhio. Interessante, in questo senso, sarebbe vederli entrambi giocare nella stessa squadra di club.

Cosa che se le voci di mercato verranno poi verificate e concretizzate nella realtà potrebbe accadere presto.

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Le ultime vicende di mercato parlano chiaro: Julio Cesar non è più considerato indispensabile in quel di Milano – almeno sponda Nerazzurra – e con ogni probabilità lascerà la squadra con cui scalò il tetto del mondo.

Al suo posto, ormai ufficiale, l’ingaggio di Samir Handanovic, portiere sloveno ex Udinese.

Giusto stamattina uno dei pochi assidui lettori dei miei sproloqui mi ha chiesto, su Facebook, cosa ne pensassi di questa operazione.

Beh, sulla carta è un affarone.

Perché quando si gestisce una società di calcio cuore e riconoscenza contano sì ma fino ad un certo punto e se si vuole restare sulla cresta dell’onda (dove l’Inter in realtà non c’è già più, ma punta a tornare da subito) si devono fare scelte anche dolorose.

Passare lo scettro di portiere titolare ad Handanovic può essere vantaggioso praticamente sotto tutti i punti di vista. Vediamoli.

Innanzitutto l’età.

Che per un portiere è sempre relativa, siamo d’accordo, ma che non può comunque non essere considerata. In questo senso doveroso sottolineare come la differenza tra i due penda tutta a favore di Samir, di ben cinque anni più giovane del suo predecessore.

Una differenza notevole che può voler dire molto. Perché se è vero che Zoff vinse un Mondiale a quarant’anni suonati è altrettanto vero che lui resta esempio più unico che raro di longevità eccezionale e che Cesar, coi suoi 33 anni sul groppone, non può garantire un minimo di cinque-sei stagioni ad alto livello come invece può fare, sulla carta, lo sloveno.

Altro aspetto importante è il rinnovamento tecnico in atto sulla sponda Nerazzurra di Milano. Dove se ne sono già andati Lucio, Cordoba, Orlandoni, Zarate e Palombo e da dove dovrebbero partire diversi altri giocatori, primi su tutti Maicon e Pazzini.

Una specie di rivoluzione, insomma, che vuol mettere in soffitta una volta per tutti la pur straordinaria squadra che centrò l’incredibile Triplete nel 2010, per provare ad aprire un nuovo ciclo con giocatori più giovani, affamati e motivati.

Tra cui, appunto, Handanovic.

Attenzione: questa è una motivazione importante. Perché se alle partenze avvenute e prossime a venire sommiamo gli acquisti già compiuti (Palacio e Silvestre oltre allo stesso Handanovic, cui va comunque aggiunto il riscatto di Guarin) più quelli che potrebbero chiudersi di qui a breve (Debuchy, Cissokho, Mudingayi più le voci Destro, Lucas, Gomez e varie) ecco che appare chiaro come il rinnovamento della squadra sia significativo e non solo fittizio.

Rinnovamento tecnico che in questo caso, sulla carta, non porta nemmeno ad un indebolimento neppur presunto della squadra. Perché parlando di over all dei due giocatori va sottolineato come Handanovic non sia certo inferiore al suo predecessore.

Se anziché sbarcare ventenne all’Udinese fosse approdato direttamente al Manchester United e lì si fosse imposto come erede dei vari Schmeichel e Van der Sar oggi Handanovic sarebbe considerato uno dei migliori esponenti del ruolo al mondo al pari di Buffon, Cech, Casillas e Neuer.

Ultimo, ma non certo in ordine d’importanza, l’abbattimento del tetto ingaggi.

Sui giornali si parla di un monte salari che oggi si aggira sui 190 milioni di euro per l’Inter, da ridurre di almeno un terzo. Ovvero sia un sessantina di milioni, che non puoi pensare di aver coperto con le cessioni di Lucio, Cordoba e Orlandoni.

Chiaro quindi che di partenze sanguinose, almeno per i cuori dei tifosi, ce ne dovranno essere ancora.

Tra queste una delle più scontate è proprio quella di Cesar, che guadagna tantissimo (quasi cinque milioni l’anno, se la memoria non mi inganna) e il cui ingaggio è quindi praticamente insostenibile, oggi, per le casse interiste.

Insomma, un’operazione che non si poteva non fare.

Con un solo piccolo dubbio: il Friuli e San Siro sono due palcoscenici opposti dove esprimersi. Riuscirà Handanovic, ormai comunque arrivato alla maturazione, a reggere l’impatto con una realtà grande ed importante come quella interista?

Nel caso in cui la risposta fosse affermativa… beh, l’Inter ha sicuramente un nuovo nonché affidabilissimo guardiano dei pali.

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I mass media ormai lo danno per fatto.

L’accordo ci sarebbe già, per una cifra che si aggira tra i 10 ed i 13 milioni, come da valutazione del Presidente Sebastiani.

Quello col giocatore, logicamente, è praticamente una formalità, perché quando sposti tutti quei milioni ed hai una facilità di spesa disarmante non ci metti molto a convincere un ventenne la cui esperienza massima di carriera è stato un secondo posto in Serie B a venire a farsi strapagare per giocare la Champions League.

Insomma, a leggere in giro si sarebbe passato il punto di non ritorno: Marco Verratti diventerà a tutti gli effetti un giocatore del Paris St. Germain e la prossima stagione sarà a disposizione di mister Ancelotti.

E questo nonostante il ragazzo qualche settimana fa giurasse, pur ancora da pescarese, eterno amore alla “sua” Juventus, la squadra per cui tifa sin da bambino.

Occasioni del genere però, oggettivamente, capitano poche volte nella vita.

Ma siamo proprio sicuri che questo trasferimento – io dico ancora eventuale, del resto anche Thiago Silva sembrava ormai avviato alla conclusione positiva – sarebbe positivo per tutte le parti?

Andiamo a valutare un po’ di pro e contro.

Partendo dal Paris. Che in realtà di contro non ne ha molti: inserirebbe in organico un giocatore potenzialmente tra i top al mondo nel proprio ruolo, lo darebbe in mano ad un allenatore che sicuramente ha le possibilità di farlo sbocciare definitivamente e, vista la capacità di spesa succitata, farebbe tutto sommato un acquisto più che accettabile, con possibilità di resa per altro esponenziali.

Ok.

Ma Marco e il Pescara?

Partiamo proprio dagli abruzzesi.
Premettendo che logicamente la volontà del Presidente sia quella di costruire una squadra capace quantomeno di salvarsi e non tanto di speculare sulla cessione di un singolo giocatore come se non ci fosse un domani ecco che non per forza la via che prevede un’offerta esclusivamente economica dovrebbe essere quella prediletta. Questo perché se ti privi di una delle tue stelle per soldi devi poi essere sicuro di reinvestirli bene, questi denari. Cosa tutt’altro che scontata.

Certo, con una decina di milioni il Pescara potrebbe andarsi a comprare la comproprietà di due o tre giovani di belle speranze sperando esplodano per poi capitalizzare ulteriormente le loro cessioni e creare un ciclo virtuoso stile Udinese, anche se magari più in piccolo, con cui mantenersi e rilanciarsi di anno in anno nel lungo periodo.

Contemporaneamente, però, la cessione del ragazzo a fronte di contropartite interessanti e già predefinite assicurerebbe un po’ al Pescara questo meccanismo.

Leggendo qua e là le dichiarazioni di Sebastiani vedevo come lo stesso Presidente abruzzese citassi il romanista Viviani. Giocatore forse meno talentuoso in senso stretto ma sicuramente interessantissimo a maggior ragione per una “piccola” come il Pescara.

Ecco quindi che un’eventuale cessione in Italia potrebbe dare la sicurezza al Pescara di andare ad accaparrarsi almeno un paio di giovani interessanti che accettando i contanti del PSG non è così scontato riuscirebbe poi a reperire altrimenti.

Perché credo sia logico che qualora Napoli, Roma o Juventus dovessero privarsi delle comproprietà di qualche gioiellino lo farebbero più volentieri a fronte dell’arrivo alla casa madre di un Verratti, piuttosto che di quell’uno o due milioni che fondamentalmente non fanno la differenza quando si parla di squadre che fatturano tra i cento ed i duecento milioni di euro l’anno.

Pescara che insomma dovrebbe farsi i conti in tasca. Perché cedere il cartellino del ragazzo in Italia farebbe sì guadagnare meno cash ma darebbe qualche certezza tecnica in più: da una parte si potrebbe ottenere più facilmente la permanenza del ragazzo per un altro anno in Abruzzo (cosa di cui nessuno parla in relazione all’eventuale trasferimento Oltralpe), dall’altra si potrebbe appunto mettere le mani con certezza su qualche giocatore che farà sicuramente comodo ad una squadra che per altro, bene sottolinearlo, ha già perso tre dei principali interpreti della scorsa stagione (Zeman, Insigne, Immobile) e che già così è quindi praticamente da rifondare.

Detto dei dubbi relativi alla società che si trova a dover cedere il ragazzo veniamo allo stesso Marco.

Che certo andrebbe a guadagnare meglio di quanto non guadagnerebbe in Italia (suppongo, almeno).
Ma c’è sempre il risvolto della medaglia.

Iniziando dalla Nazionale: oggi, pur non essendo ancora riuscito ad essere un punto fermo dell’under 21, Verratti è già in predicato di passare alla nazionale maggiore.

I giornali, dopo la preconvocazione Europea, lo danno già per scontato ed è indubbio che un suo eventuale imporsi in Serie A, foss’anche solo con la maglia attuale, potrebbe essere il sigillo del suo ingresso a tutti gli effetti nel giro “grosso”.

E storicamente, Campioni affermati a parte, abbiamo sempre visto come in Italia si tenda un po’ a snobbare il giocatore che gioca all’estero. A maggior ragione appunto quando non ha già una statura affermata (come potevano essere Zambrotta e Cannavaro qualche anno fa, o lo stesso Thiago Motta oggi, pur con profili diversi).

Ma anche ponendo il fatto che questo nuovo corso prandelliano possa rappresentare un punto di rottura anche in questo senso è inutile negare che oggi, nonostante tutti i tanti problemi intrinseci del nostro calcio, la Serie A ha ancora un profilo superiore alla Ligue 1.

E questo nell’evoluzione di un giocatore conta.

Altrimenti non si spiegherebbe perché in linea di massima, con qualche rara eccezione emersa solo col nuovo corso “arabo” del Paris, siano sempre i talenti francesi ad emigrare per consacrarsi, e mai il contrario.

Questo è un aspetto cui il ragazzo dovrebbe pensare.

Esattamente come dovrebbe pensare al fatto che un cambiamento così drastico, che lo porterebbe a cambiare addirittura nazione, influirebbe comunque pesantemente sulla sua vita di tutti i giorni e sul suo stile di vita stesso.

Inoltre un suo eventuale trasferimento a Torino, dove gli consigliai di andare già mesi fa, lo vedrebbe inserito in un contesto idilliaco per la sua crescita, con il regista per eccellenza a fargli da chioccia ed una serie di compagni che si ritroverebbe poi in Nazionale.

Insomma, posto che per ogni calciatore la massima aspirazione dovrebbe essere l’Azzurro ecco che andare a Parigi sarebbe controproducente. Meglio restare in Italia, con il top rappresentato, oggi, da Torino.

Poi certo, aspetto economico a parte c’è una questione tecnica che potrebbe comunque invogliarlo a scegliere Parigi: Carlo Ancelotti.

Inutile nasconderci. Stiamo parlando dell’allenatore che non inventò Pirlo regista, ma di certo che aiutò uno dei talenti più cristallini della storia del calcio italiano (e forse non solo) ad imporsi come il Fenomeno assoluto che oggi tutti noi conosciamo e che se solo una settimana fa avesse vinto l’Europeo sarebbe uno dei maggiori candidati al Pallone d’Oro.

Chiaro, non è detto che “l’operazione” riuscirebbe anche con Verratti, ma è indubbio che questo aspetto potrebbe portare il ragazzo e il suo entourage a propendere per Parigi.

In tutto questo chi sicuramente ci perderebbe è il calcio italiano: che si vedrebbe scippato di un ennesimo talento (dopo che l’anno scorso, tanto per dirne due, ha perso Sanchez e Pastore) e che soprattutto dimostrerebbe ancora una volta, dopo il caso Giuseppe Rossi, l’incapacità di trattenere in Italia uno dei nostri giovani talenti più puri.

Al riguardo so di ripetermi in continuazione, ma purtroppo le cose non cambiano: c’è bisogno di una rivoluzione culturale nel mondo del calcio italiano (e forse nel paese tutto) che porti i nostri dirigenti a credere e puntare sui giovani talenti che abbiamo.

Perché una volta anche i Cannavaro, Buffon, Pirlo e Gattuso erano solo dei giovani di belle speranze che avevano tutte le possibilità, come i Baronio di turno, di tradire le attese.

Ma se nessuno ci avesse mai puntato oggi noi saremmo solo tre volte Campioni del Mondo.

Beh, è ora di tornare a puntare sul nostro calcio, che come hanno dimostrato gli Europei appena conclusi resta, nonostante tutte le contraddizioni ed i problemi che ha al suo interno, ancora un movimento che se vuole può davvero rappresentare un’eccellenza a livello mondiale.

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