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Posts Tagged ‘L’Opinione’

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2900 minuti giocati, 22 reti segnate = 1 ogni 132 minuti.

715 minuti giocati, 3 reti segnate = 1 ogni 238 minuti.

La differenza di rendimento sotto porta di Icardi è netta.

Certo, nei primi due mesi di questa stagione la punta argentina ha messo assieme una quantità di presenze ovviamente limitata rispetto all’interezza di quella passata, ma il trend negativo è netto. Un trend peraltro migliorato proprio dall’apparizione di ieri sera, in cui il talento di scuola Barcellona è riuscito a ritrovare un goal che gli mancava da 348 minuti.

E’ evidente che uno scadimento di questo genere – oggi Icardi ha bisogno di giocare circa cento minuti in più dell’anno scorso per trovare il goal – non può essere riconducibile ad un solo aspetto, ma deve essere un mix di ingredienti che portano a questo “piatto indigesto”.

Personalmente ho un’idea abbastanza chiara di quello che è il Mauro Icardi calciatore, del suo profilo tecnico-tattico.

Ho sentito fare molti paragoni in passato, sul suo conto, e tanti di questi li ho trovati davvero molto poco azzeccati.

Pur partendo dal presupposto che ogni giocatore è unico ed irripetibile, e che quindi è logico non si possa trovare una totale congruità tra due diversi calciatori, trovo comunque utile la pratica del paragone, quando sensato.

Esempio pratico: paragonare Icardi a Vieri mi sembra profondamente sbagliato. L’ex ariete Azzurro era un giocatore che sfruttava molto di più la sua grandissima potenza, che aveva un bagaglio tecnico a mio avviso maggiore soprattutto per quanto concerneva un sinistro potente e preciso che gli dava possibilità di colpire anche da oltre il limite, ecc.

Insomma, non paragonerei Icardi a Vieri perché stile, bagaglio tecnico e approccio tattico dei due sono profondamente differenti. Il fatto che, banalizzando, si stia parlando di due prime punte non rende il paragone strettamente vero/sensato.

Se penso ad Icardi mi viene quindi più da paragonarlo ad un altro giocatore d’origine argentina, pur in quel caso più legato al calcio europeo da un punto di vista internazionale: David Trezeguet.

Entrambi sono infatti due bomber di razza, due giocatori di stazza che amano battere l’area di rigore per farsi trovare pronti a colpire, due calciatori bravi nel gioco aereo e strettamente portati alla finalizzazione.

Ovviamente anche in questo caso ci sono peculiarità differenti, ma credo sia indubbio dire che entrambi siano due “bomber d’area”, più che due centravanti completi e di manovra.

Proprio partendo da questo presupposto viene logico pensare che il problema principale di questa involuzione icardiana sia da ritrovare nel supporto che la squadra dà alla punta nativa di Rosario.

Ho sempre trovato l’idea di provare a trasformare Mauro Icardi in un centravanti completo abbastanza balzana. Le sue caratteristiche di gioco mi sembrano evidenti e per quelle deve essere sfruttato.

Icardi ha bisogno di essere il terminale ultimo di una squadra che giochi supportandolo. Che non significa giocare strettamente per lui, ma che significa non chiedergli di fare l’Ibrahimovic della situazione o cose simili.

Icardi deve giocare principalmente in area di rigore o a ridosso di essa. Deve essere sfruttato con traversoni che possano sfruttarne le capacità aeree ed in generale per la sua capacità di farsi trovare al posto giusto nel momento giusto.

Ripensate ai goal segnati da Trezeguet ed al suo intero trascorso juventino: non credo nessuno si possa sentire di dire che quella squadra fosse costruita SU di lui, ma di certo non era chiesto a lui di costruire gioco per altri.

Trezeguet era il classico giocatore che poteva toccare tre palloni a partita, ma che generalmente uno di questi riusciva a recapitarlo alle spalle del portiere.

Ecco il perché di questo paragone: se parliamo di macro aree Icardi non somiglia a Pelè, Vieri o Inzaghi. Rientra nella macro area di cui il francoalgerino è uno degli alfieri.

Se è vero che il calcio è in evoluzione e che quel tipo di giocatori, oggi, hanno sempre meno spazio, è altrettanto vero che non si può pensare di snaturare un giocatore solo per seguire l’evoluzione del calcio.

Le eccezioni esistono ed esisteranno sempre. C’è da capire se si vuole accettare di puntare su un’eccezione o se si preferisce monetizzare l’eccezione per prendere un giocatore più conforme alle caratteristiche “tipo” del centravanti moderno.

Tutto questo per dire cosa?

Che non credo molto in un’involuzione di Icardi in quanto tale, per quanto anche i periodi di forma possano ovviamente incidere sul rendimento di un giocatore.
Credo piuttosto che Mancini una volta arrivato all’Inter abbia deciso di provare a plasmare il giocatore, senza però riuscire a trarne risultati apprezzabili.

Al tempo stesso l’Inter di oggi non ha un’idea di gioco, ed il primo a risentirne non può che essere quel giocatore che, per costituzione, dovrebbe stare là in mezzo all’area ad aspettare la palla giusta da sbattere dentro.

I giocatori di questo tipo non devono essere per forza messi al centro del proprio gioco, ma di certo non possono nemmeno essere abbandonati a loro stessi, o falliranno senza possibilità d’appello.

Questo non vuole essere un atto d’accusa nei confronti di Mancini, né tantomeno una difesa d’ufficio della punta argentina.
Le cose, però, credo stiano così…


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Nel 1886 il famosissimo scrittore Robert Louis Balfour Stevenson scrisse un romanzo destinato a fare storia: Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde.

Nel libro si racconta la storia di un medico-scienziato che scopre una pozione capace di destrutturare l’unità dell’essere umano, conferendo esistenza propria e distinta alle inclinazioni nascoste ma presenti nell’animo.
Così facendo il dottore è vittima di una sorta di sdoppiamento della propria personalità. Che come conseguenza ha la creazione, fondamentalmente, di due vite separate.

Ecco, proprio questa storia mi ricorda in qualche modo ciò che sta vivendo sulla propria pelle il buon Marco Verratti. Non tanto perché anche lui vittima di uno sdoppiamento della personalità, ovviamente, quanto perché sta vivendo una sorta di “sdoppiamento della carriera”.

La cosa credo sia evidente a tutti: mentre da una parte il ragazzo è ormai saldamente al centro del progetto tecnico di uno dei primi otto club d’Europa, dall’altra la Nazionale continua – di fatto – a fare a meno di lui.

Ecco, al riguardo, un paio di numeri secchi per capire di cosa stiamo parlando.

Siamo all’evidente paradosso.

Nella gara disputata mercoledì contro il Chelsea Marco Verratti ha fatto ottima mostra di sé e delle sue capacità.

Nonostante l’ancor giovane età, infatti, non ha dimostrato alcun timore reverenziale né nei confronti dell’ambiente né tantomeno degli avversari, giocando con grande personalità un ottavo di finale di Champions League molto delicato.

Insomma, oltre ad avere un grandissimo talento tecnico – è indubbiamente uno dei giovani centrocampisti più dotati, da questo punto di vista – Marco Verratti dimostra già di poter avere un grandissimo impatto con situazioni complesse come quella vissuta appunto qualche giorno fa.

Eppure, appunto, in Nazionale continua ad essere un rincalzo.

E sì che ai Mondiali, per il poco che ha giocato, fu uno dei pochissimi a salvarsi. Ancora una volta grazie a quel mix di personalità e tecnica che gli sta permettendo d’imporsi a Parigi.

Cosa deve fare di più per poter riuscire a conquistarsi una sacrosanta maglia da titolare anche in Nazionale?

La questione diventa per altro grottesca analizzando la situazione degli Azzurri, che raramente nella loro storia hanno sofferto di una pochezza generalizzata così palese.

A centrocampo, poi, le alternative sembrano davvero poca roba: se escludiamo Marchisio, giocatore che assicura un certo rendimento in maniera abbastanza costante (ma che non è comunque un campione) resta l’ormai compassato Pirlo, il fantasma di De Rossi, l’impresentabile Montolivo, il generoso Parolo, il grintoso Poli… praticamente tutti giocatori che, ad oggi, non valgono Marco Verratti.

Insomma, il talentino pescarese dovrebbe essere la pietra miliare su cui costruire non dico la Nazionale, ma di certo il suo centrocampo. Ed invece, come potete vedere voi stessi seguendo le sorti degli Azzurri, è considerato un surplus.

Intendiamoci: Marco Verratti oggi non è etichettabile come campione, ma di certo è un progetto – avanzato – di grandissimo giocatore.
Ha comunque i suoi bei limiti (su tutti il tempo d’uscita, aspetto che sta comunque migliorando, ed un’eccessiva aggressività che lo porta a collezionare qualche cartellino di troppo), però resta il punto di riferimento del nostro centrocampo.

O almeno, dovrebbe esserlo sulla carta. Poi sia Prandelli che Conte, a mio avviso sbagliando, stanno scegliendo differentemente.

Un’ultima riflessione: chissà cosa succederebbe se a fine stagione Verratti dovesse vincere la Champions. Non credo accadrà eh, ma sarebbe l’apoteosi.
A quel punto con ogni probabilità il mister si sentirebbe in dovere di farlo giocare, ma sarebbe – non che ce ne sia bisogno – la plastificazione migliore della crisi del nostro calcio, che oltre a produrre meno talenti di un tempo riesce anche a svalutare quelli che ha in casa…

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Qualche giorno fa radiomercato fece rimbalzare una voce di mercato accattivante: l’Inter (ma pare anche la Fiorentina) avrebbe pensato al 26enne terzino sinistro messicano Miguel Layún per rinforzare la squadra già nel corso del mercato invernale. Trattativa comunque già sfumata, dato che il ragazzo ha firmato per il Watford, venendo poi girato in prestito al Granada (quindi è entrato nel giro dei Pozzo, patron dell’Udinese).

Una voce che immaginavo non si sarebbe concretizzata, ma certo non poteva stupire l’interesse dei Nerazzurri nei confronti dell’esterno difensivo ex America di Città del Messico: tra i migliori interpreti nell’ottima avventura mondiale del Tri, il ragazzo nativo di Cordoba ha dimostrato di poter reggere il confronto anche su palcoscenici importanti.

Eppure ai più attenti il nome di Layún non suonerà certo nuovo. Il link col nostro paese, che difficilmente va a battere strade di mercato considerate “esotiche” come quella messicana, affonda le radici indietro nel tempo, più precisamente nell’agosto del 2009. Quando l’Atalanta, dopo un lungo periodo di prova, decise di prelevarlo dal Veracruz in prestito annuale con diritto di riscatto.

A Bergamo le cose sembrarono partire benino: il ragazzo dimostrò grande impegno nel ritiro di Brentonico, mettendo in mostra buone cose durante le amichevoli estive ed esordendo in Serie A – primo messicano nella storia – a fine settembre.

In realtà, però, né Gregucci (che guiderà la squadra per le prime quattro di campionato) né Conte (subentrato dopo il 4 a 1 di Bari) faranno grande affidamento su di lui. Così a gennaio, proprio mentre l’Atalanta si troverà a cambiare nuovamente guida tecnica, le presenze sono solo due e l’addio inevitabile: lo chiama l’America, club che ha appena lasciato per ritentare l’avventura europea. Così dopo aver preso armi e bagagli Miguel Layún saluta l’Italia, amareggiato.

La sua storia penso certifichi bene buona parte dei difetti del nostro calcio. Un sistema in cui si fa fatica a guardare oltre al proprio naso, in cui non si dà tempo ai giovani di adattarsi ed imporsi, in cui spesso ci si accorge tardi del capitale dilapidato.

Così un giocatore che già cinque anni fa poteva diventare uno dei terzini più interessanti del nostro panorama è stato bocciato prematuramente e rispedito a casa, dove ha – per sua fortuna – trovato ambiente e fiducia adatta ad imporsi, vincere trofei, conquistare la Nazionale e tornare a vedere il proprio nome al centro delle trattative di mercato italiche.

Lungi da me voler gettare la croce addosso ai dirigenti atalantini, che solitamente sui giovani ci vedono bene. Il discorso è molto più ampio e riguarda tutto il nostro movimento: l’Atalanta visse una stagione molto travagliata, e vista la retrocessione di fine anno con ogni probabilità non avrebbe comunque riscattato il ragazzo. Vero però che una sua eventuale – e non così improbabile – imposizione avrebbe permesso ai bergamaschi di acquistare il cartellino per girarlo poi subito ad una qualche altra squadra di maggior lignaggio, che avrebbe potuto così acquistare un giocatore extracomunitario senza però gravare sul proprio cap, essendo a quel punto Layún già tesserato per una squadra italiana.

Invece?

Invece Miguel Layún non è stato sfruttato per quelle che erano le sue capacità, ha dovuto subire l’umiliazione della bocciatura, tornare in Messico, correre e lottare per dimostrare di essere meglio di quanto non lo ritenessimo in Italia ed, infine, venire riscoperto dai nostri operatori di mercato solo dopo un Mondiale giocato su ottimo livello.

Perché quello è un altro grosso problema del nostro sistema-calcio: la quasi totale incapacità – salvo rarissime eccezioni – di fare scouting come si deve. Affidarsi ad un Campionato del Mondo sono capaci tutti. I giocatori vanno scoperti prima. Ed è il colmo vedere che un giocatore sbarcato in Italia già cinque anni e mezzo fa sia stato ri-scoperto solo grazie a Brasile 2014…

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Oggi, venerdì 26 dicembre 2014, gli inglesi festeggeranno Santo Stefano guardandosi – direttamente allo stadio o in tv – un nuovo turno di Premier League.

Una tradizione, quella inglese, che affonda le radici indietro nel tempo, nascendo al di fuori dello sport. Nelle nazioni del Commonwealth, infatti, il boxing day è una festività in cui si provvede a regalare doni ai membri meno fortunati della società.

Applicato al mondo del calcio inglese, invece, diventa appunto la possibilità di potersi gustare una giornata di Premier il giorno dopo Natale.

Un’usanza che i figli d’Albione hanno saputo sfruttare bene anche in tema di marketing, aspetto in cui sono – calcisticamente parlando – i primi al mondo.

Un’usanza che qualcuno ha già provato più volte a portare anche in Italia, trovando però l’alzata di scudi da parte dell’AssoCalciatori, che vede col fumo negli occhi la possibilità di giocare a Santo Stefano.

Ma andiamo con ordine.

Partiamo dal presupposto che la mancanza di un boxing day italiano non è il problema principale del nostro calcio, evidentemente. Attanagliato da questioni (meno soldi, poche idee, incapacità di battere mercati alternativi, scarso ritmo, ecc) ben più gravi.

Detto questo, parliamo comunque di un mondo di privilegiati. Che pare non siano disposti a rinunciare a molto, pur in un momento storico in cui a tutti è chiesto di fare uno sforzo, vista la congiuntura economica.

Si oppone l’idea della “difesa della tradizione”, ma anche questo è un falso problema. Vogliamo difendere le tradizioni del nostro calcio? Perfetto. Smettiamo di pensare al marketing, torniamo ad indossare solo divise classiche e soprattutto a giocare ogni turno di campionato in contemporanea la domenica alle 15.

No, quella dell’AssoCalciatori non è volontà di difendere la tradizione, quanto – appunto – i privilegi dei propri associati. Del resto lo dicono chiaramente: “i calciatori hanno diritto alle ferie a Natale”. Quelli inglesi no?

Ma attenzione, non è mia intenzione fare retorica. La questione è seria: non possiamo lamentarci del fatto che il calcio italiano va a rotoli se non siamo disposti a cambiarlo.

Ripartirà semplicemente grazie al boxing day? Assolutamente no, ma sarebbe un primo segno di volontà di cambiamento. E soprattutto non possiamo lamentarci di avere scarsi introiti dal marketing, perché facciamo poco-nulla per svilupparlo adeguatamente.

Mi si potrebbe obiettare “anche in altri paesi non si gioca a Natale”. Certo, ma questa non è una scusa.

E soprattutto… in altri paesi il gioco è molto più intenso che da noi. Possibile che noi non corriamo né a settembre né a maggio, mentre in Inghilterra corrono dodici mesi l’anno, Natale compreso?

Ed è possibile che in tutto ciò, pur con la differenza abissale di ritmo, siano i nostri calciatori ad aver bisogno di ferie natalizie?

Ognuno si faccia l’opinione che crede. Io personalmente sarei più per non giocare tra Natale e la Befana, ma del resto il mondo cambia. E se non sei capace di cambiare con lui sorgono i problemi.

In Germania la pausa è più lunga, ma i contesti sono diversi. E soprattutto loro hanno saputo impostare un lavoro grazie al quale non hanno bisogno di giocare anche a Natale per fare marketing ed allestire squadre competitive, perché hanno una mentalità calcistica ed un settore giovanile all’avanguardia.

In Italia, invece, non abbiamo nulla di tutto questo.

Non sarebbe il boxing day a cambiare il calcio italiano. Ma del resto da qualche parte bisogna pur iniziare. E se proprio non si può rinunciare alle ferie di Natale, almeno si torni a costruire un movimento ed un prodotto capace di rivaleggiare con le migliori realtà al mondo…

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Un mesetto fa feci un post su Facebook e Twitter che riscosse abbastanza successo. Ve lo riporto qui:

Un’idea che mi sono fatto senza basi scientifiche, ma semplicemente guardando le partite. Ecco, un disclaimer in questo senso: partite ne vedo a decine ogni mese. Quindi, se non altro, la base di valutazione è ampia.

Ma davvero l’uno contro uno sta scomparendo nel nostro calcio?

A mio modesto avviso, purtroppo sì. Ovvio, non si può dire che scomparirà del tutto. Ed anzi, così come ora è un gesto tecnico in contrazione può essere che tornerà a crescere, in futuro, il numero di interpreti capaci di dilettarsi in questo fondamentale.

Ma ad oggi, guardando il calcio italiano a vari livelli (dalle giovanili, alla Serie A, fino alla Nazionale maggiore) l’idea che mi sono fatto è quella.

Pensate proprio alla Nazionale: chi salta l’uomo? Praticamente nessuno. L’unico, un minimo, è Giovinco. Usato come arma a partita in corso, in questi primi match è subentrato dando un po’ di verve alla squadra e mettendo assieme qualche dribbling. Ma poi poco altro.

Lo stesso si può dire per i settori giovanili, con rappresentative comprese. Io guardo tutti i match che posso, e se penso che un tempo i Del Piero, i Totti, i Moriero o i Bruno Conti erano la normalità mi viene male. Oggi i nostri giovani sono per lo più “appiattiti” da un sistema formativo che insegna loro a non stare mai fuori posizione per non scoprire la squadra, ma difficilmente coltiva la loro predisposizione a saltare l’uomo e creare superiorità numerica.

Insomma, in Italia mi pare che negli ultimi anni si sia dato il via ad una demineralizzazione del talento che si certifica proprio in questa sempre più marcata pochezza per quanto concerne le situazioni di uno contro uno.

Certo, un discorso come questo dovrebbe essere supportato da numeri. Perché altrimenti resta una tesi un po’ campata per aria, con tanto di commenti tipo “sei un catastrofista” o “sei un hater” annessi.

Ora, partendo dal presupposto che chi mi conosce o segue da tempo sa che nulla ho più a cuore del calcio italiano, qualche dato interessante in merito – pur non essendo io uno statistico – l’ho anche trovato.

La questione è semplice: vedendo il buon impatto sul campionato che stanno avendo Dybala e Perotti ho iniziato a ragionare sul fatto che siano tra i pochi giocatori in Italia, appunto, a saltare l’uomo.

Entrambi, per altro, hanno origini e passaporto italiani, pur essendo e sentendosi argentini.

Proprio dalle discussioni partite sull’eventuale italianizzazione dei due (Dybala non ha presenze in Nazionale maggiore, Perotti due ma entrambe in amichevole) è quindi nato tutto questo discorso nella mia testa, che ho concretizzato qui oggi.

Numeri, dicevo. Ecco, l’idea è stata quella di affidarsi ad un sito riconosciuto come WhoScored per andare a vedere chi sono i giocatori con più dribbling riusciti a partita. E proprio come avevo postulato nelle mie tante riflessioni, ecco il dato che immaginavo: non ci sono calciatori italiani tra i primi 10 giocatori con più dribbling compiuti in Serie A.

Il primo Azzurro, infatti, è Franco Brienza (dodicesimo). Che per altro Azzurro formalmente non lo è, dato che la maglia della Nazionale non l’ha mai vestita. Più o meno lo stesso discorso vale anche per Sansone, Verdi ed Okaka, gli altri tre italiani presenti nei primi venti posti della classifica (questi ultimi due rispettivamente ventesimo e diciannovesimo, per altro).

Insomma, il fatto che l’uno contro uno sia un gesto tecnico in cui siamo sempre più carenti non sembra essere solo una mia riflessione, ma un vero e proprio dato di fatto. Ed è un dato in cui si concretizza, almeno parzialmente, la crisi del nostro calcio: un calcio con sempre meno qualità ed idee, che anni fa ha venduto l’anima ad un tatticismo esasperato, restando ancorato ad un passato che non esiste più.

Come provare a ripartire? Tornando a puntare sul talento, sugli spunti individuali, sull’intensità di gioco. Perché intendiamoci, la tattica è importante. Ma non può essere tutto.

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La polemica è già scoppiata, e logicamente non poteva essere altrimenti.

Nell’elenco stilato da mister Conte in vista della gara contro la Croazia c’è infatti anche lui, quel Mario Balotelli che nell’arco di pochi mesi è passato dall’essere salvatore della Patria (goal contro l’Inghilterra) ad essere un reietto.

Beh, vorrei esprimere la mia opinione al riguardo. E farlo con la franchezza di sempre.

Partiamo quindi da un preambolo doveroso, forse inutile per chi mi conosce e segue anche su Facebook  e Twitter: io non amo Mario Balotelli.

Non lo amo perché fondamentalmente è un ragazzo maleducato (come dice il grande Cruyff sulla Gazzetta di oggi), borioso (“Solo Messi è meglio di me”), tatticamente limitatissimo e globalmente sopravvalutato. Del tutto incapace di ergersi a trascinatore, come invece dovrebbe.

Detto questo, logico che non mi sia strappato le vesti quando ho visto che Conte aveva deciso di non convocarlo per le prime uscite, puntando su altri interpreti.

In compenso, però, Mario Balotelli resta uno dei giocatori più talentuosi del nostro sempre più povero calcio. Un talento grezzo e globalmente immaturo, ma comunque uno dei pochi giocatori in grado di inventarti giocate capaci di spaccare le partite.

Posto tutto ciò era quindi logico che nonostante fosse stato accantonato per un po’, prima o poi Conte avrebbe dovuto chiamarlo e fare i conti con il suo genio – relativo – e le sue – tante – bizze.

In tutto ciò la situazione in cui si trova Conte – a nome di tutto il calcio italiano – verrebbe da dire sia quasi paradossale: da una parte il nostro movimento è sempre più povero di talento. Dall’altra il livellamento che ne consegue porta ad un’ancor più difficile scelta, nel momento in cui debbono essere redatte le liste di convocazione.

Questo perché?

Semplice. L’appiattimento in tema di talento finisce con l’allargare la base da cui pescare. Così se una volta certi giocatori non avrebbero avuto nessuna chance di essere chiamati in Nazionale, oggi ecco che possibilità ce n’è un po’ per tutti. Ed i nomi diventano tanti.

Senza nessuno che riesca a spiccare, infatti, è logico che rientrino in gioco molti giocatori. Tra questi anche lo stesso Mario Balotelli, che pure quest’anno più che mai non meriterebbe la convocazione.

Va detto, però, che proprio la mancanza di “top player” dovrebbe portare Conte a spingersi ancor più verso la meritocrazia. Perché ad un Baggio o ad un Totti fuori forma è difficile rinunciarci. Erano giocatori di classe assoluta, dei dominatori. Talenti capaci di spaccare i match, di decidere le partite in ogni momento. Il tutto, anche senza stati di forma lontanamente accettabili.

Tutto ciò però non vale per i giocatori a disposizione oggi. Così stona pensare che non venga data ancora una possibilità al duo blucerchiato Okaka-Gabbiadini, che tanto bene sta facendo in campionato.

Due giocatori che certo non hanno la statura per essere considerati convocabili di diritto, ma che nel contempo non cedono molto ad uno Zaza o ad un Balotelli, che pure hanno iniziato la stagione molto peggio di loro.

E allora?

E allora se nessuno dei giocatori a disposizione oggi è capace di ergersi sopra gli altri – e certo questo ruolo non può ricoprirlo Balotelli – che si parta tutti dallo stesso livello e che si combatta poi ad armi pari. La maglia Azzurra va sudata e conquistata. Due concetti che sono sempre sembrati estranei all’attaccante oggi al Liverpool.

Sulla convocazione di Balotelli, per altro, se ne è ovviamente dette tante. In primis il fatto che sarebbe lì solo perché sponsorizzato dalla Puma, azienda che produce materiale tecnico per la stessa Nazionale e che contribuisce sostanziosamente al pagamento degli emolumenti dovuti al tecnico di Lecce.

Beh, voci probabilmente infondate che però era logico sarebbero girate, alla su prima convocazione. Soprattutto se la stessa arriva in uno dei momenti peggiori della carriera dell’ex interista e milanista.

A questo punto, però, si può provare a dare una lettura anche opposta: e se dietro a questa convocazione ci fosse, paradossalmente, la volontà di “stroncare” da subito il rapporto con un giocatore ormai dai più ritenuto un peso piuttosto che un fattore aggiunto?

Se, insomma, Conte l’abbia chiamato proprio in un momento di così grossa difficoltà per lanciarlo titolare nella sfida più complessa del girone e, nel caso, avere la scusa per poterlo non convocare a lungo qualora lui dovesse fare male?

Certo, è solo un’ipotesi. Anche piuttosto campata per aria. Ma del resto se dobbiamo fare dietrologia è giusto farla in entrambi i sensi…

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Lo spettacolo di cui abbiamo goduto venerdì sera nel match che ha visto gli Azzurri opposti al modestissimo Azerbaigian è stato ai limiti del raccapricciante (ne ho parlato su Twitter e su Facebook, più precisamente in questo post).

Cinque difensori schierati contro una squadra che ha rinunciato dal primo minuto ad attaccare. Col risultato che o hanno provato a riconvertirsi tatticamente, o si sono trovati a doversi marcare tra loro.

Per altro, ciliegina sulla torta, la Nazionale italiana è riuscita anche a prendere un goal, sommando gli errori di ben quattro giocatori diversi sino a compiere il patatrac finale (prima Bonucci che regala palla, poi Ranocchia che entra molle e perde il rimpallo dovendo concedere l’angolo; infine l’uscita sbagliata di Buffon ed il conseguente stop maldestro di Chiellini, con relativo autogoal).

Ci sono tre cose che stento a capire dell’approccio avuto a quel match.

  1. Perché schierare due terzini come fluidificanti per poi farli giocare spesso quasi in linea con le punte?
    Non sarebbe stato meglio, a quel punto, varare davvero una sorta di 3-3-4 (prendendo a modello quello del profeta Ezio Glerean, che ho spiegato approfonditamente in questo video) con esterni dalle doti spiccatamente offensive? Del resto Darmian e De Sciglio nascono terzini. E’ logico si trovino nella condizione degli adattati, a dover giocare costantemente così alti.
  2. Perché schierare ben tre difensori centrali a fronte, di fatto, di nessuna vera punta in campo per gli azeri?
    Per l’amor di Dio, sulla carta avevano un trequartista (fisso a uomo su Pirlo) ed un paio di punte, praticamente costantemente dietro la linea della palla. Così che Bonucci si trovava spesso a staccarsi centralmente, un po’ in stile Lucio, per gettarsi nella metà campo avversaria. Anche qui, non era forse meglio togliere un uomo alla difesa ed aggiungerlo più avanti?
  3. Il terzo punto è un semplice riflesso dei primi due: perché schierare solo due giocatori dalle doti spiccatamente offensive (le punte) contro una squadra modesta e riluttante al gioco offensivo come l’Azerbaigian?

Problemi di questo tipo sono evidentemente imputabili alla pervicace ossessione del calcio italiano rispetto al motto “Primo: non prenderle”. Che diventa quasi penosa, quando ci si trova a doversi confrontare con squadre dal così basso potenziale tecnico. Come si è dimostrato l’Azerbaigian e come si dimostrerà, per l’ennesima volta, la piccola Malta (al netto di Mifsud, giocatore di livello molto più alto rispetto ai propri compatrioti).

Qualcuno mi risponderà: “Il calcio italiano ha sempre vinto così, col Catenaccio: tre Mondiali, un’Olimpiade, un Europeo. Più tanti altri piazzamenti comunque importati e di prestigio”.

Vero, ma solo in parte. Ed anche la parte vera va comunque interpretata e riletta con gli occhi di un appassionato del 2014.
Ma andiamo con ordine.

In primo luogo non è vero che l’Italia ha sempre vinto col “Catenaccio”, come si dice.

Lo stesso venne proposto per la prima volta nell’ormai lontanissimo 1932 dall’austriaco Karl Rappan, all’epoca allenatore del Servette. Catenaccio che approdò nel calcio tra nazionali sei anni più tardi, quando il mister nativo di Vienna sedette sulla panca della Svizzera.
In Italia questo metodo approdò quindi solo all’inizio degli anni ’40, importato dall’allora coach della Triestina Mario Villini nel Campionato Alta Italia.

Nel frattempo la Nazionale aveva vinto metà di quanto è riuscita a vincere nel corso della sua storia: l’epopea Pozzo (che giocava con una sorta di 2-3-2-3) portò infatti due titoli Mondiali (’34 e ’38, proprio l’anno in cui Rappan propose il Catenaccio a livello Mondiale) inframezzati da uno Olimpico (1936).

In secondo luogo, il calcio cambia ed è in continua evoluzione. Giudicare tutto con gli occhi del passato ha poco senso.

Negli ultimi decenni infatti molte cose sono cambiate. C’è stata ad esempio l’era del tiki-taka, che ha segnato molto profondamente sia il calcio di club che quello internazionale.
Ma non solo.

C’è stato anche uno scadimento generale della qualità del nostro calcio. Così da super star come i pionieri Meazza e Piola si è arrivati al duo Immobile-Zaza. Con tutto il rispetto – ad oggi – inferiore anche ai vari Riva, Rossi, Baggio Vieri, Del Piero, Totti e compagnia cantante.

Da qui si evincono due cose: una, si può anche pensare di evolvere i propri fondamenti di gioco. Discostandosi così sia dal Catenaccio ad ogni costo, che però anche dal Sacchismo sfrenato, con il sistema sempre e comunque al di sopra di ogni invidualità.

L’altra, che se una volta giocare col freno a mano contro le piccole pagava comunque, perché avevi dei fenomeni capaci di risolverti le partite, oggi rischi di fare figuracce assolute (come contro Haiti) o comunque sfiorarle, affidandoti più alle situazioni di palla inattiva che ad altro.

Quindi, cosa vorrei vedere contro Malta?

Semplicemente, una squadra con più giocatori dalle doti spiccatamente offensive in campo. Una squadra che, un po’ come successo al Belgio contro Andorra, scenda in campo e prenda a pallate l’avversario dal primo all’ultimo minuto. Perché quando il divario tecnico è così ampio (la nostra qualità è scaduta, ma resta imparagonabile a cenerentole come Malta ed Azerbaigian) la partita la vinci anche se attacchi per novanta minuti, magari pur concedendo una ripartenza in più all’avversario.

Potrebbe bastare poco. Pensiamo alla semplice sostituzione dei terzini De Sciglio – Darmian con due giocatori spiccatamente offensivi come Candreva e Giovinco, schierati sì quasi in linea con le punte. Il 3-5-2 diventerebbe un 3-3-4 quasi effettivo, e pur senza seguire i principi di gioco di Glerean qualche grattacapo in più ai nostri avversari lo produrremmo sicuramente.

Questo pur salvaguardando i tre difensori dietro. Perché volendo si potrebbe calcare ancor più la mano, facendo uscire una roba del genere:

Ovvero una formazione che vedrebbe una sola sostituzione rispetto quella cui starebbe pensando Conte (Giovinco per uno dei centrali di difesa) ma che sarebbe molto più offensiva (volendo una sorta di 4-2-4, modulo un tempo prediletto dallo stesso C.T. leccese).
L’idea di gioco è questa: due terzini (con Florenzi adattato) molto offensivi, con licenza di salire moltissimo. Due soli centrali di difesa (personalmente schiererei Ogbonna al fianco di Bonucci, sono i due centrali tecnicamente più dotati). Il genietto Verratti a fare taglia e cuci a centrocampo, dove ci sarebbe la sostanza di Marchisio. E poi il duo Candreva-Giovinco a partire larghi ma con licenza di svariare (col primo che in caso di necessità potrebbe anche scalare mezz’ala a dare una mano al centrocampo) e la coppia prescelta in attacco a finalizzare (io, dato che Pellè dovrebbe essere certo del posto, leverei Immobile: Zaza fa molto meglio il lavoro di raccordo col centrocampo, scendendo bene tra le linee).

Contro una squadra che sicuramente penserà solo a difendere, come già fatto dall’Azerbaigian, non varrebbe la pena provare a spingere di più?

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Chi mi conosce capirà il dolore che mi può provocare scrivere un pezzo come questo. Ma del resto un motto di vita che penso sia bene seguire è “Obbedienza alla verità”, e di fronte ad un dato di fatto non posso che chinare il capo e fare un passo indietro.

Partiamo allora dal principio: amo l’Italia profondamente e non vorrei mai doverne parlare male, tanto meno lasciarla.

Però i problemi del nostro paese sono sotto gli occhi di tutti, ed ogni tanto ammetto che la tentazione di pensare ad una vita all’estero mi viene.

Venendo al calcio, anche qui i problemi sono molteplici: nell’arco di pochi anni il nostro movimento si è involuto tantissimo, e sotto ogni punto di vista: l’under 21 da dominatrice assoluta del palcoscenico europeo fa ormai fatica a qualificarsi all’Europeo stesso, la nazionale maggiore viene da due Mondiali assolutamente disastrosi, i nostri club perdono talenti senza riuscire a porre un freno a questa emorragia, ed in chiave internazionale sono ormai spettatori passivi dei trionfi altrui.

In tutto questo “bel” quadretto si aggiunge quindi la nostra atavica ritrosia a puntare sui giovani, cosa riscontrabile nel calcio come in un po’ tutti i settori della nostra società.

Il tutto, rimanendo proprio al nostro sport preferito, si traduce in giovani promesse bruciate, esplosioni tardive, demineralizzazione dei nostri settori giovanili, per altro ormai – anch’essi – invasi dagli stranieri.

Tutto questo cosa comporta?

Spazi ridottissimi per emergere.

Un ragazzo di potenziale oggi deve battagliare per il posto con coetanei che arrivano da tutto il mondo. Che magari non sono più forti, ma più pronti e maturi sì. E se non giochi non cresci.

Poi, una volta terminato il proprio periodo di formazione, o sei un predestinato o vieni costretto a girovagare per l’Italia, per lo più nelle serie minori, alla ricerca di qualcuno che ti dia un posticino al sole. Che punti sulle tue qualità e provi a svilupparle. Che contribuisca a renderti un calciatore “vero”. Che ti infonda fiducia nelle tue capacità e ti permetta di sbocciare.

Ecco, proprio quest’ultimo è il punto: fiducia.

Tutto ciò che in Italia sembra non venire mai accordata ai giovani, che pure ne avrebbero estremo bisogno. Perché parliamoci chiaro: a parte qualche raro caso di ego ipertrofico, mediamente a vent’anni hai bisogno ti sia data fiducia, per averne in te stesso.

Puoi essere caratterialmente forte e portato a lottare per natura, ma serve comunque la fiducia dell’ambiente per poter crescere nel migliore dei modi.

Senza fiducia, di solito, si finisce per giocare poco, essere accantonati al primo errore e, soprattutto, alla lunga si può iniziare ad autoconvincersi del fatto che non si è all’altezza della situazione.

Ovviamente le mie sono elucubrazioni personali, ma credo che se negli ultimi anni la maggior parte dei nostri talenti non sia arrivata a compiere quanto gli veniva pronosticato in gioventù sia in primis per questa mancanza di fiducia. L’esatto opposto di quanto accade in sistemi come quello spagnolo (sbocciato negli ultimi anni e capace di lanciare giovani talenti a ripetizione), francese (un po’ come da tradizione), almeno parzialmente inglese (i casi sono molteplici, sicuramente molti più che in Italia) e tedesco (dove si trovano minorenni tranquillamente titolari anche in Bundesliga).

Il punto è questo: se a 17 anni sei titolare in una massima serie, a 20 avrai già tre campionati alle spalle, un buon bagaglio d’esperienza e soprattutto, se vali, un certo patrimonio di fiducia nei tuoi mezzi. Del resto se fossi scarso non ti saresti fatto tre anni da titolare in Liga, Premier, Ligue 1 o Bundesliga.

Così ti ritrovi a vent’anni ad essere quasi un veterano, con però ancora molta prospettiva di crescita davanti a te. Un po’ la stessa prospettiva che hanno i nostri giovani in Italia, che però mediamente a quel punto di esperienza ad alto livello ne hanno zero ed ancora sono lì a chiedersi se un posto in Serie A possono valerlo.

Nomi?

Pellè ne è l’emblema. Ma anche il redivivo Okaka. Così come tutta una serie di giocatori che hanno ormai tra i 23 ed i 25 anni, ma che ancora non sono riusciti ad imporsi davvero ad alto livello, pur avendo le possibilità di farlo.

Quindi?

Quindi per quanto mi costi dirlo, forse i nostri giovani dovrebbero iniziare a pensare a strade alternative, esattamente come succede al di fuori del calcio.

Personalmente esperienze di vita all’estero non ne ho fatte, proprio per via di quell’amore spassionato che mi lega alla mia terra, da cui vorrei non separarmi mai.
Ma di amici che non trovando grandi prospettive di vita hanno deciso di darsi una chance altrove ne ho parecchi. E di tutte le estrazioni sociali e le competenze. Dal ragazzo che vive da anni in Australia all’amica che fa la ricercatrice in Francia, passando per il cameriere londinese e l’impiegata tedesca.

Ecco, un po’ allo stesso modo se avessi un figlio di 15-16 anni al massimo che fosse particolarmente portato per il calcio e mi desse l’impressione di poter avere prospettive di livello, credo proprio lo porterei altrove.

Perché ripeto, qui l’iter è noto: cresci in un settore giovanile dove si pensa più a vincere i tornei che non a formare i ragazzi e dove se atleticamente sei maturo giochi anche qualora ci siano panchinari tecnicamente più dotati di te.

Terminato il biennio della Primavera vieni dirottato in Lega Pro. Tutt’al più in Serie B, ma sei quasi più un’eccezione a conferma della regola che non altro. Se poi gli astri si allineano, allora forse si possono schiudere direttamente le porte della Serie A, dove però o sei un mini-fenomeno oppure non giocherai praticamente mai.

Così inizi a girare, spesso a vuoto, per l’Italia. Perché poi anche in Lega Pro, per quanto tu possa essere forte, sarai considerato un “bambino”, ancora troppo inesperto perché ci si possa fidare di te.

E allora potresti finire col non giocare molto. E le volte che giocherai, il livello sarà comunque bassino, non così tanto performante da farti sviluppare appieno il tuo potenziale.

Poi dopo un lungo girovagare e alla fine di un periodo in cui i tifosi si saranno dimenticati di te qualcuno potrà dire “ai tempi quello prometteva bene”, e magari darti una chance. Ma nel frattempo tu ti sarai sentito così sminuito dal corso della vita e della tua carriera da non poter più dare ciò che in potenza avresti potuto.

Ok, è una ricostruzione forse un po’ estrema dei fatti, ma in molti casi succede così. E’ sotto gli occhi di tutti.

Per me ruota più o meno tutto attorno alla fiducia. Che in Italia manca.

Ah, un ultimo appunto: migrare all’estero non deve significare per forza andare al Chelsea, al Real o al City.

Anzi.

Un po’ perché sono squadre che spesso sono multietniche già nelle giovanili, e quindi ti troveresti comunque a dover sostenere un livello di competizione altissimo. Un po’ perché mediamente poi lo spazio in prima squadra sarebbe ridottissimo.

Dovessi guardare all’estero io, farei una bella cernita di tutti i settori europei più importanti, soppesando i vari fattori per poi decidere dove provare ad infilarmi.

Per dire, in Inghilterra guarderei subito al Southampton, prima che a realtà più blasonate. Così come non mi spiacerebbe un Benfica o un Ajax, venendo a campionati di minor spessore. Per non parlare dell’Anderlecht, sicuramente tra le squadre in cima alla lista.

Anche il PSG ha un ottimo settore giovanile, ma purtroppo scarsi sbocchi in prima squadra.

Insomma, ragazzi miei, pensateci bene. Forse è arrivato il momento di strigliare il nostro paese. Lasciarlo e fargli capire che se non si dà una mossa e non cambia velocemente, il suo futuro sarà sempre più nero…

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Questo pezzo me lo ha – involontariamente – ispirato Francesco a.k.a. FletcherLynd, con cui ho avuto un rapido scambio di idee a margine della gara disputata dalla nostra under 21 contro Cipro.

In particolare il tweet incriminato è questo:

Insomma, un paragone diretto tra Belotti e Vieri, ovviamente a parità di età.

Un paragone che poi, l’indomani, avrei personalmente allargato anche al buon Zaza.

Ma qui bisogna far partire una serie di presupposti:

  1. Il primo è anche il più importante: ogni giocatore è uguale solo a sé stesso, come si dice. Ma il calcio, da sempre, vive di paragoni. Che vanno sicuramente saputi fare [quanto sono inutili quelli che si basano semplicemente sulla provenienza (un giovane nigeriano sarà il nuovo Okocha, un argentino il nuovo Maradona, ecc) o sull’aspetto fisico (Zaza somiglia ad Anelka, ecc)?] ma soprattutto vanno saputi leggere. Dire che “X ricorda Y”, infatti, non significa dire che giochino esattamente allo stesso modo né tantomeno che i due siano forti uguali.
    Semplicemente, che hanno alcune caratteristiche simili ed assimilabili.
  2. Belotti è ancora molto giovane e fondamentalmente non ha esperienza ad alto livello. Logico che prima di poterne pesare seriamente le doti si dovrà aspettare. Ma è pure chiaro che o si decide sempre di parlare solo col senno del poi, e allora a quel punto si fa mera analisi di un fatto, oppure è giusto e bello arrischiarsi in qualche ipotesi preveggente.
  3. Anche qui, una certa importanza: Zaza ha fatto un goal in Nazionale, giocando per altro molto bene. Ma è logico che non lo si può, ora, far passare come un fenomeno. Di strada da fare ne ha ancora tantissima e non è affatto detto esploda. Quanto stanno facendo certi media, che hanno bisogno di costruire fenomeni mediatici da cavalcare, lo trovo esecrabile.
    Non parlarne del tutto, però, sarebbe altrettanto sbagliato.

Belotti e Zaza rappresentano una tipologia di giocatore che è probabilmente mancata negli ultimi anni, alla Nazionale italiana.

Una punta capace sia di battagliare con forza e vigoria in area di rigore (181 centimetri per 72 chili il primo, 187 per 75 il secondo) che di aiutare la propria squadra in fase di non possesso.

Soprattutto, una punta che dia l’impressione di poter diventare un solido cannoniere, a prescindere dal tipo di gioco che può trovarsi ad interpretare.

Christian Vieri è stato un giocatore abbastanza unico. Forte, potente, esplosivo sulle gambe, tecnicamente ben sgrezzato tanto da aver segnato anche qualche golletto di pregevole fattura.

Un brutto anatroccolo cresciuto in provincia che, con il passare del tempo, ha saputo conquistarsi spazio e visibilità, sino a diventare una delle prime punte migliori della sua epoca.

Qualche presenza in A nel Torino e poi la gavetta di tre anni in B con le maglie di Pisa, Ravenna e Venezia. Quindi ancora la A con l’Atalanta, da cui nel 1996 lo prelevò la Juventus, che lo lanciò nel grande calcio cedendolo l’estate seguente all’Atletico Madrid, dove vinse il titolo di Pichichi.

Insomma, Vieri ci mise 23 anni a guadagnarsi la chiamata di un club di primissimo livello, in un calcio in cui per altro gli stranieri erano meno di oggi.

Da questo punto di vista Belotti ha quindi ancora tutto il tempo per uguagliarlo, ma anche migliorarlo. Diverso invece il discorso di Zaza, che se per quanto riguarda i club non è ancora riuscito a trovare spazio in una big (la Juve ne acquistò il cartellino, ma non ci puntò mai davvero), è stato più precoce del talento italoaustraliano per quanto concerne la nazionale.

Ma perché questi due giovani dovrebbero essere in qualche modo accostati ad uno degli attaccanti più forti e prolifici del nostro calcio?

Beh, un po’ proprio per la storia. Se Del Piero e Totti erano dei predestinati, lanciati sin da giovanissimi nel calcio che conta, Vieri ha dovuto sgomitare e lavorare molto in provincia per riuscire ad imporsi ed arrivare sino a diventare compagno dei due in Nazionale.

Allo stesso modo Belotti (cresciuto nell’Albinoleffe e passato al Palermo in B l’anno scorso) e Zaza (cresciuto all’Atalanta e sgrezzatosi tra Castellammare di Stabia, Viareggio ed Ascoli) non sono considerabili predestinati, come invece potrebbe esserlo un El Shaarawy.

Ma comunque, con quella stessa fame e voglia di arrivare che caratterizzò il bomber di Bologna sia Belotti che Zaza si sono conquistati la Serie A. Ed il secondo anche la Nazionale.

Nessuna volontà di elevare a fenomeni due giocatori che, oggi, fenomeni certo non sono. E che magari non lo saranno mai.

Ma del resto chi, in quell’inizio dei novanta, avrebbe pensato che Christian Vieri sarebbe diventato capocannoniere in Spagna, avrebbe segnato una nuova cifra record per il suo trasferimento all’Inter, sarebbe stato trascinatore di una squadra sempre a caccia di grandi risultati e soprattutto titolare fisso della Nazionale, che seppe trascinare fino ai quarti di finale del Mondiale del 98?

Io credo più o meno nessuno.

E allora che Belotti e Zaza continuino a crescere con la stessa fame ed abnegazione che li ha portati a migliorarsi sempre e a crescere professionalmente.

Il tempo è dalla loro parte, e se anche Christian Vieri è unico ed irripetibile chissà che qualche altro blogger, tra quindici o vent’anni, non possa finire col paragonare qualche giovane affamato di belle speranze proprio a uno tra Andrea e Simone…

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La cessione sul filo di lana di Bryan Cristante ha scosso molto l’ambiente del tifo Rossonero.

Non poteva essere altrimenti.

Del resto una volta chiusa del tutto l’epopea del Milan di Ancelotti era chiaro come la società dovesse iniziare a riprogrammare il proprio futuro. Quel gruppo fantastico capace di vincere tutto non poteva certo durare per sempre.

Il ricambio generazionale non è però stato gestito nel migliore dei modi. E soprattutto, col passare del tempo, il Milan ha risentito della crisi del nostro paese così come del nostro calcio, andando in difficoltà in maniera lampante.

Gli acquisti di Ibrahimovic e Robinho, che permisero ai Rossoneri di Allegri di vincere un campionato e qualificarsi nei due anni successivi alla Champions sono stati forse l’ultimo vero sussulto di quello che era il “grande Milan”.

Con la partenza dello svedese e di Thiago Silva si è quindi aperta definitivamente la crisi per uno dei club più vincenti e conosciuti al mondo.

Una crisi da cui la stessa società disse a più riprese di voler uscire seguendo una linea verde: basta sprechi e spazio a giovani che potessero aprire un ciclo nuovo.

L’acquisto di Balotelli, da parte mia ampiamente criticato da subito, poteva in un certo qual senso andare in quella direzione.

La realtà dei fatti, però, è che anche al netto di quell’investimento sbagliato il Milan non ha (ancora) dimostrato di puntare davvero sulla linea verde, e proprio la cessione del gioiellino di centrocampo fatto in casa lo dimostra ancora una volta, qualora ce ne fosse bisogno.

E attenzione, questo varrebbe anche qualora Cristante non dovesse dimostrare, in carriera, di valere un posto nel Milan. Perché i discorsi col senno del poi sono facili. Il punto è dimostrare oggi fiducia ai propri giovani. Ed il Milan qualcuno da provare (in primis proprio Bryan) l’avrebbe (o aveva, nel suo caso).

Proprio nelle ore che hanno accompagnato l’addio del ragazzo a Milano, direzione Lisbona, si è scatenato un gran can can su Twitter, come ampiamente preventivabile. Ed è su questa ridda di voci che vorrei far vertere questo pezzo, tardivo ma doveroso.

Partiamo quindi dal famoso, decantato e già citato progetto giovani.

Non sarà finissimo, ma questo tweet di @cecio10 rappresenta abbastanza bene la dissonanza milanista: quando si parla di progetto giovani non si può cedere il proprio miglior prodotto delle giovanili lanciabile in prima squadra al momento. Passi per De Sciglio e l’ex genoano El Shaarawy, ma un Cristante non può non essere tenuto ed inserito in rotazione, se si deve costruire un ciclo nuovo e vincente.

Questo a prescindere dal fatto che, come giustamente detto da qualcuno, Cristante non aveva ancora dimostrato di meritare il Milan. Ma del resto finché non gli si da la possibilità di farlo…

Sempre a questo proposito riporto un mio tweet in cui citavo @milannight. La questione è la medesima: non puoi partire dicendo che i fenomeni vanno costruiti in casa per poi cedere Cristante alla prima offerta buona. E’ un controsenso.

Lo è anche partendo dalla consapevolezza che Cristante non è e non sarà un nuovo Messi. Ma del resto, non è solo sui Messi che si fondano le squadre vincenti.

Comunque, l’incoerenza è palese.

Veniamo quindi alle questioni economiche. Ok, il Milan ha sicuramente un problema inerente il tetto ingaggi e la scarsa liquidità. Quindi, per fare mercato ha bisogno di tagliare i costi da una parte e cedere giocatori capaci di portare cash nelle proprie casse dall’altra.

Ma partendo dal presupposto che l’idea iniziale era quella di cedere Cristante per pagarsi l’acquisizione di Biabiany… ecco, lascio ad @AleStefanelli87 il commento, che personalmente trovo azzeccato:

Non solo. Tornando a @milannight, ecco una giustissima riflessione sulla questione costi (con relativa gestione da parte della società):

Perché spendere quei soldi per un giocatore praticamente finito quando si potevano usare per trattenere Cristante, girandoli sulle operazioni Biabiany-Bonaventura?

Purtroppo alla base sembra mancare una vera vision, un respiro ampio, una capacità di programmazione che vada oltre il semplice oggi.

A darmi ragione in questo discorso, ecco il tweet di @DiaVoltaire:

Una fondamentale miopia di base di cui parlo da almeno due o tre anni, personalmente. Cosa che mi ha portato ad essere anche accusato di essere, non si capisce per quale motivo poi, “anti-Galliani”.

Beh, credo invece che proprio questa cessione con tutto ciò che ha comportato ben dimostri come le cose che vado ripetendo da tempo sono, bene o male, fondate. E che non c’è un sentimento di “odio” nei confronti di nessuno, ma una semplice valutazione di quella che è la situazione-Milan.

In ultimo, altre tre considerazioni.

La prima viene direttamente da me:

E’ assolutamente probabile che Bryan Cristante giocherà molti più minuti in Portogallo di quanti non ne avrebbe giocati in Italia. Per altro là avrà la possibilità di esprimersi anche sul palcoscenico europeo, sicuramente una vetrina importante nonché un banco di prova fondamentale per lui.

Quindi se osserviamo le cose non dal punto di vista della società, che a mio avviso ha compiuto un errore, quanto da quello del giocatore ecco che si può prendere questa cessione come una cosa positiva. Il tutto sperando che il Benfica, per una volta, sia rampa di lancio anche per un nostro giovane calciatore.

Tornando invece per un attimo a parlare della “politica verde” che dovrebbe seguire il Milan, una giustissima considerazione – ci avevo pensato anche io – di @intenditore11. La classe 98 Rossonera è talentuosa ed interessante. Ci sono giocatori come Mastour, Cutrone e Llamas (ma anche Locatelli, Malberti, La Ferrara ed altri) che hanno il potenziale per arrivare a giocare in Serie A.

Beh, se io fossi un top club europeo aprire subito il libretto degli assegni, e vedrei di acquistarne il più possibile. Del resto il Milan ha dimostrato che sta vivendo una crisi (economica e di idee) tale per cui un assalto di questo genere non è detto verrebbe respinto.

Infine @augustociardi torna sul solito vecchio problema italiano: la mancanza di fiducia nei giovani.

Che dire? Siamo un paese che non vuole più costruirsi un futuro.

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