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Ma se la Catalogna arrivasse davvero ad ottenere l’indipendenza, cosa ne sarebbe del Barcellona?

Chi mi conosce da tempo sa che raramente mi discosto da questioni strettamente calcistiche, di campo. Questa volta mi perdonerete lo strappo alla “regola”.

Partiamo dal principio: per farla molto breve, i catalani hanno da sempre un fortissimo spirito identitario ed un certo qual moto indipentista in sé.

Se vi è mai capitato di parlare con qualche catalano della cosa, questo vi spiegherà che tutto ciò ha radici profonde ed importanti nella storia del paese e del loro “popolo”, che si rifà ad esempio alla repressione franchista vissuta in uno dei momenti più bui della storia spagnola.

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Beh, come molti di voi avranno sicuramente quantomeno sentito dire, lo scorso 27 settembre si sono consumate le elezioni in Catalogna, vinte – come da previsione – dalla coppia di partiti indipendentisti conosciuti come “Junts pel sì” e “Cup“.

I due, uniti dalla comune matrice indipendentista, hanno quindi ottenuto la maggioranza dei seggi, 72 su 156, anche se non la maggioranza assoluta dei voti, fermandosi ad un comunque ottimo 47,8% totale (diviso con il 39,5% del totale appannaggio dei primi ed il rimanente 8,3% appannaggio dei secondi).

Da subito i leader dei due movimenti hanno lanciato i propri strali: “Nelle prossime settimane metteremo le basi per l’indipendenza dalla Spagna” il messaggio, chiaro, lanciato da Artur Mas. Con un altrettanto significativo “Spagna, adios” pronunciato da Antonio Banos.

Come si lega e si riflette, tutto ciò, al e sul calcio?

Semplice: qualora la Catalogna ottenesse davvero l’indipendenza (nota bene: la Corte Costituzionale spagnola ha revocato la mozione sull’indipendenza catalana approvata lo scorso mese dai neo eletti parlamentari della regione iberica, ma la situazione resta tutta in divenire) si porrebbe la questione Barcellona, non proprio un club di poco conto sullo scenario calcistico mondiale.

Oggi la squadra allenata da Luis Enrique è indubbiamente la più forte del mondo.

Campionessa europea in carica, con ogni probabilità futura campionessa del mondo, ha un mix di talento pazzesco, soprattutto in fase di costruzione e di conclusione del gioco.

Un trio offensivo Messi – Suarez – Neymar (la famosa “MSN” di cui si parla in questi mesi) è qualcosa di più unico che raro. Nella storia del calcio, non solo sullo scacchiere mondiale odierno.

In più, il Barcellona è anche una macchina da soldi (l’ultimo fatturato parla di  un giro d’affari di 566 milioni, solo 12 in meno del Real Madrid), che può spostare gli equilibri di un campionato intero, con la sua presenza o il suo addio.

Logico quindi che un calciofilo come il sottoscritto non può non farsi stuzzicare dalla domanda “dove giocherà il Barcellona in caso di indipendenza catalana?

Le ipotesi sono, di fatto, tre.

Quella che nell’immediato ritengo meno probabile e realizzabile, ma che in compenso potrebbe avere degli sviluppi futuri anche a prescindere dall’eventuale lotta per l’indipendenza della Catalogna, è la nascita di una nuova entità sovranazionale, una sorta di “campionato iberico“.

Di questo pare che le due leghe stiano già parlando, che ci sia quantomeno un’idea – pur ancora primitiva – in discussione.

Senza volermi soffermare troppo sulla bontà o meno di un’idea che di fatto prelude a quella famosa “SuperLega Europea” di cui spesso abbiamo sentito parlare, è indubbio che qualora questo torneo transnazionale dovesse partire prima di una sopraggiunta indipendenza catalana risolverebbe ogni problema in partenza: la Catalogna, geograficamente, resterebbe ovviamente parte della penisola iberica e non credo ci sarebbero problemi, a quel punto, ad inglobare anche il Barcellona in questa competizione.

La seconda chiama invece in causa l’ultimo articolo pubblicato su questo blog, quello riguardante il Club Atlético Tetuán, unico club nella storia della Liga a non essere geolocalizzato entro i confini spagnoli.

Una peculiarità oggi non più replicabile, posto che le regole, nel frattempo cambiate, spiegano bene come ai campionati di Spagna possano partecipare solamente squadre di quel paese.

E Barcellona, in caso d’indipendenza catalana, non sarebbe più una città spagnola.

La terza, infine, è ancor più particolare e chiama in causa il Primo Ministro di un altro stato, la Francia.

Manuel Valls, infatti, è un politico francese nato guarda caso a Barcellona, nonché socio del club blaugrana.

Proprio da lui, ormai più di un mese fa, arrivò un’apertura importante alla possibilità di vedere la sua squadra del cuore partecipare al “Campionato Esagonale”, tanto da guadagnarsi addirittura la prima pagina del quotidiano sportivo “AS”, in luogo di un Messi o un Ronaldo.2anlutc

Non essendo esperto di geopolitica non mi azzarderò a dire se le velleità indipendentiste catalane abbiano o meno possibilità di concretizzarsi e se quindi, tra qualche tempo, dovremo davvero porci il problema “dove andrà a giocare il Barcellona?”

Di certo credo che se prendessimo per buona un’indipendenza catalana a breve-medio giro di posta, ne vedremmo delle belle. Perché il Barcellona è ormai un colosso economico e di marketing prima che sportivo. Il che significa che la stessa Liga, pur con tutte le frizioni che nascerebbero nel caso, non potrebbe far altro che spingere per mantenere in sé i blaugrana, anche arrivando a ri-modificare l’attuale regolamento.

Chissà, magari a sessant’anni dallo scioglimento del Club Atlético Tetuán arriveremo a vedere un altro club non spagnolo partecipare al loro campionato…


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Quest’oggi voglio raccontarvi di una sorta di maledizione di cui immagino pochi siano a conoscenza. Una maledizione che si è protratta lungo gli ultimi trentatrè anni, fino ad oggi. Una maledizione che colpisce le squadre capaci di vincere la medaglia di bronzo ai Campionati del Mondo e rispetto cui solo i tedeschi sembrano immuni.1zd7q7b

Basta sfogliare l’albo d’oro del Mondiale, infatti, per rendersi conto di una peculiarità particolare: in tutti gli ultimi nove tornei iridati le terze classificate sono state squadre del continente europeo.

Niente di male, non fosse che in sette di queste occasioni proprio le formazioni capaci di salire sul gradino più basso del podio Mondiale non sono poi riuscite a qualificarsi all’Europeo successivo.

Nel 1982 il Mondiale si giocò in Spagna, ed arrise alle compagini del Vecchio Continente, capaci di qualificarsi in massa alle semifinali.
Con Paolo Rossi e compagni capaci di aggiudicarsi la medaglia d’oro, fu la Polonia di Boniek e Lato ad aggiudicarsi la medaglia di bronzo, cedendo 2 a 0 in semifinale contro gli Azzurri (con doppietta proprio del nostro centravanti) per poi superare la Francia 3 a 2, grazie alle reti realizzate nell’arco di sei minuti, ma a cavallo dei due tempi, da Szarmach, Majewski e Kupcewicz.
L’Europeo successivo (all’epoca ancora aperto a otto sole squadre) si giocò proprio in Francia (ed a vincerlo furono i padroni di casa), con la Polonia che fu la prima vittima di questa maledizione. Sebbene solo due anni prima si era affermata come terza forza mondiale, Boniek e compagni disputarono un girone di qualificazione complicatissimo, raccogliendo una sola vittoria, due pareggi e tre sconfitte nell’arco di sei match, terminando quindi al terzo posto un girone a quattro squadre, alle spalle di Portogallo ed Unione Sovietica e davanti alla sola Finlandia.

Quattro anni più tardi fu la stessa Francia, da campionessa europea in carica, ad aggiudicarsi il terzo posto Mondiale, nell’edizione di Messico 86.
Platini e compagni raggiunsero le semifinali dopo aver eliminato l’Italia agli ottavi (Platini e Stopyra gli autori delle reti) ed il Brasile ai quarti ai calci di rigore. In semifinale, quindi, i Galletti dovettero cedere alla Germania Ovest (Brehme e Völler in goal) per poi andare però ad aggiudicarsi il bronzo col 4 a 2 maturato ai tempi supplementari contro il miglior Belgio di sempre, quello guidato in campo da giocatori del calibro di Pfaff, Scifo e Ceulemans.
Continuando lungo il solco tracciato dalla Polonia nel quadriennio precedente, quindi, i Transalpini – non qualificati di diritto, nonostante fossero detentori del titolo – non seppero essere tra le sette squadre qualificate all’Europeo che si disputò in Germania Ovest nel 1988. A frapporsi tra loro e la fase finale del Torneo furono Unione Sovietica e Germania Est, con la Francia che seppe raccogliere sei soli punti (li stessi della modesta Islanda).hqdefault

Gli anni novanta si aprirono quindi con la nostra Italia vittima di questa strana maledizione. Terza ai Mondiali di casa, dopo la sconfitta ai rigori contro l’Argentina ed il 2 a 1 sull’Inghilterra nella finalina, gli Azzurri si presentarono al via delle qualificazioni all’Europeo di Svezia 92 come teste di serie, finendo nel gruppo tre con Unione Sovietica, Norvegia, Ungheria e Cipro.
Proprio i sovietici, esattamente come capitato quattro anni prima ai nostri cugini francesi, misero i bastoni tra le ruote a quella che solo due anni prima si era dimostrata la terza forza mondiale in ambito calcistico, vincendo il girone e condannandoci a guardare il Torneo dalla tv.
L’Italia comunque, dobbiamo dirlo, di fatto si suicidò in quell’occasione: il duplice scontro diretto con l’URSS finì in pareggio perfetto, con due 0 a 0. A fare la differenza fu quindi l’incapacità Azzurra di imporre il proprio dominio sugli altri campi, con i pareggi in Ungheria ed in casa contro la Norvegia e la sconfitta proprio in Norvegia.

L’Europeo del 1996 vide il primo allargamento delle partecipanti, che da otto divennero sedici. Il doppio delle possibilità, quindi, per la terza classificata ai Mondiali precedenti di centrare la qualificazione al torneo continentale.
Come molti di voi sicuramente ricorderanno il bronzo in America nel 1994 lo riportò la Svezia di Ravelli ed Andersson, che cedette di misura in semifinale al Brasile del duo Romario-Bebeto prima di imporsi largamente contro la Bulgaria di Stoichkov in finalina.
Sulla carta il compito svedese sembrava tutt’altro che proibitivo: con due posizioni utili a qualificarsi per il Torneo inglese, Brolin e compagni avrebbero dovuto cavarsela senza grandissimo affanno essendo inseriti in un girone che comprendeva anche Turchia, Svizzera, Ungheria ed Islanda.
Vincendo due sole partite su otto, però, i Blågult lasciarono campo libero proprio a Turchia e Svizzera, due compagini che sin lì non avevano rappresentato moltissimo sullo scacchiere calcistico mondiale: i primi avevano raccolto una sola partecipazione Mondiale (1954, eliminazione al primo turno) e si qualificavano per la prima volta agli Europei, i secondi avevano invece partecipato a ben sette Campionati del Mondo, ma senza compiere mai imprese particolari, ed erano anch’essi alla prima partecipazione europea.

La maledizione continuò quindi anche a cavallo tra la fine del ventesimo secolo e l’inizio dell’attuale. Nel mondiale francese del 1998 la terza piazza la conquistò la stupefacente Croazia di Davor Suker, che però fallì poi miseramente la qualificazione agli Europei di Belgio e Olanda (squadra che i croati superarono proprio nel corso della finalina mondiale).
Sebbene i croati godessero di ampio credito, proprio anche sulla scorta dell’ottimo Mondiale disputato in Francia, Jugoslavia (all’epoca ciò che rimaneva dallo smembramento jugoslavo si chiamava ancora così) ed Irlanda seppero condurre in porto una campagna qualificatoria più solida, frapponendosi tra i croati ed il loro sogno di ribadire quanto di buono fatto in territorio francese anche Oltremanica.

La maledizione vacillò nel 2004, quando i turchi si trasformarono da carnefici (capaci di eliminare la Svezia otto anni prima) a vittime.
Giunta terza nello stranissimo mondiale nippocoreano, la Turchia disputò un buonissimo girone di qualificazione che la vide perdere solo in Inghilterra per pareggiare poi al ritorno proprio contro i Figli d’Albione, in un match-spareggio che avrebbe consegnato il pass Europeo proprio ai turchi, in caso di vittoria.
Spareggi che evidentemente dovevano essere la maledizione di quella nazionale, che accoppiata alla modesta Lettonia nella coppia di match decisivi a strappare un biglietto aereo per il Portogallo finì col perdere 1 a 0  (Verpakovskis) fuori casa per poi non andare oltre un mesto 2 a 2 al ritorno, quando dopo essersi portata sul 2 a 0 grazie alle reti di Ilhan Mansiz ed Hakan Sukur l’Ay-Yıldızlılar si fece rimontare nel giro di dodici minuti dalle reti di Laizans e del solito Verpakovskis, eroe nazionale lettone nei mesi a venire.

Come tutte le regole, però, anche “La maledizione del bronzo Mondiale” non poteva non avere un’eccezione. Che, altrettanto ovviamente, non poteva che essere la Germania.23901624

Furono proprio i tedeschi, terzi sia in casa nel 2006 che quattro anni dopo in Sudafrica, a spezzare, almeno così sembrava, questa maledizione.
Nel 2008 infatti non seppero solo qualificarsi agli Europei di Austria e Svizzera, ma andarono addirittura vicini a vincerli (sconfitta in finale contro la Spagna). Nel 2012 invece in finale non ci arrivarono, ma solo perché trovarono l’Italia di Prandelli in stato di grazia e dovettero cedere alla doppietta di Mario Balotelli, vedendo sfumare la riedizione della finale precedente.

Proprio quando si poteva pensare che “La maledizione del bronzo Mondiale” non foss’altro che un lontano ricordo, visto anche l’ulteriore allargamento del palcoscenico Europeo, ci hanno pensato gli olandesi a rimettere le cose al proprio posto, rendendo l’exploit tedesco la classica eccezione alla regola.
Oranje che dopo essersi classificati terzi al Mondiale brasiliano grazie al secco 3 a 0 rifilato ai padroni di casa nella finalina di consolazione non sono incredibilmente riusciti a classificarsi nemmeno per i playoff di qualificazione ai prossimi Europei, terminando addirittura in quarta posizione un girone che sulla carta avrebbero dovuto fors’anche dominare, dietro a Repubblica Ceca, Islanda e Turchia e davanti alle sole Kazakistan e Lettonia.
Un fallimento totale per il calcio olandese, che dal 1976 in poi aveva mancato l’accesso ad una sola fase finale dell’Europeo (quella del 1984).

Ma soprattutto la conferma di una maledizione che nel corso degli ultimi trentatrè anni ha mietuto molte vittime, risparmiando i soli tedeschi. Vittime in alcuni casi, come in questo olandese, assolutamente illustri.fa672b82d40543368869ff8c4840e043_18


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Ieri in conferenza stampa Mihajlovic ha lanciato l’idea: posto che il modulo di base del Milan prevederà le due punte di ruolo e quindi, generalmente, non si giocherà con gli esterni offensivi cercherà di trasformare El Shaarawy da ala sinistra a mezz’ala sinistra, facendolo quindi sia scalare di qualche metro indietro che facendolo passare dalla fascia al centro(sinistra) del campo.

Trovo che l’idea sia interessante. Chiariamoci. Il Milan ha due sole possibilità: o cede – che in questo momento significa svende, date le prestazioni del ragazzo nell’ultimo paio di anni – El Shaarawy oppure prova a recuperarlo, reinventadogli la posizione in campo non potendolo schierare alto a sinistra.

Proprio posto che ad oggi cederlo significherebbe svenderlo credo sia più che normale che l’allenatore debba provare a fare un tentativo per recuperarlo ad alto livello. Ed in questo senso le possibilità non sono tantissime.

La più immediata potrebbe essere quella di avvicinarlo alla porta, per cercare anche di fargli ritrovare il feeling con il goal. Seconda punta, intendiamoci. Ruolo però che non so quanto potrebbe calzargli, posto che ha sempre dato il meglio di sé con tanto campo davanti, potendo saltare gli avversari in velocità (del resto in surplace non sa farlo).

Altra possibilità sarebbe di farlo tornare sulla trequarti, centralmente. Ruolo già ricoperto più volte nel corso della sua carriera giovanile. Anche qui, però, l’idea è che non sia un trequartista classico, dotato di grande visione di gioco e capacità di rifinitura. Vuole campo, ama comunque allargarsi a sinistra per andare a prenderselo e rientrare per calciare.

Una terza idea molto più ardita – probabilmente la più ardita in assoluto – lo vorrebbe terzino di spinta, con un’evoluzione alla Zambrotta. Però giocare in difesa non può significare solo attaccare. Certo, a quel punto avrebbe tanto campo davanti e se recuperato al 100% avrebbe di certo la capacità aerobica per arare la propria fascia di competenza (che, a quel punto, vedrei essere più che altro la destra). Però dovrebbe tatticizzarsi molto per ricoprire un ruolo assolutamente inedito, che prevede movimenti di reparto completamente diversi rispetto a quelli cui si è abituato fino ad oggi: dalle diagonali difensive in area di rigore sino alla “banale” tattica del fuorigioco, sarebbero tantissime le cose che dovrebbe imparare per poter provare a rendere lì.

La quarta ed ultima idea è quindi quella lanciata proprio dal neo mister Rossonero: piazzarlo a centrocampo, insegnargli i movimenti singoli e di reparto necessari per ricoprire un ruolo comunque piuttosto diverso da quello di ala e cercare di recuperarlo al calcio ad alto livello così. Anche qui comunque un’impresa tutt’altro che facile, posto che deve dimostrare spirito d’abnegazione per cambiare molto di quello che è stato il suo calcio fino ad oggi e soprattutto bisognerà capire se avrà la forza di riuscire ad adattarsi ad una posizione così diversa, che richiede un duplice lavoro in entrambe le fasi ancora più marcato di quanto già comunque non facesse da ala.
Perché poi intendiamoci: chi dice che El Shaarawy da ala non difendesse sbaglia alla grande. Anzi, ha sempre dimostrato di metterci tutta la voglia di scendere fino a dare una mano al terzino. Alle volte finendo col sacrificarsi anche troppo.

Comunque ieri stimolato da questa idea di adattare il Faraone a mezz’ala ho chiesto un po’ di pareri a chi interagisce con me tra Facebook e Twitter e ne sono usciti spunti e considerazioni interessanti…

Ad aprire le danze è Benny Giardina, che ci va piatto: “io dico che con quei tempi di inserimento vale più da mezz’ala che da ala. Se lo tatticizzi al ruolo (che ad oggi NON È ASSOLUTAMENTE SUO) può venir fuori un bell’esperimento. Ma se al terzo giorno di allenamenti continua a correre come Poli [a caso, ndr], rimettilo in attacco per il bene di tutti”.

Idea simile per Marco Facchetti, che rispondendo a Mazinho (il quale aveva detto “leggo che tanti parlano della trasformazione di Di Maria da trequartista esterno a interno di centrocampo. Anche Di Maria non ha il contrasto ma Stephan non ha assolutamente la visione che ha Di Maria. Sarebbe intrigante ma temo di no”) dice “non deve avere la visione di DiMaria. Servono sacrificio (check), convinzione e tanto tanto lavoro. Affascinante”.

I convinti non sono in molti, vi dirò. Tra questi Daniele Michelini, che su Facebook si sbilancia così: “Per me può fare bene… anche perché in fase offensiva tanto fa SEMPRE lo stesso movimento… e pure i difensori senza gambe ormai lo riescono a fermare… ha parecchio dinamismo per cui con le giuste dritte tattiche potrebbe ritagliarsi spazi importanti”.

Possibilista anche Alberto Carpi: “L’idea ci può stare ma secondo me non dipende tutto dal Faraone ma anche da come verrà costruito il centrocampo e SOPRATTUTTO dall’atteggiamento che terrà il Milan sul terreno di gioco. Se i rossoneri “domineranno” la partita allora le sue caratteristiche possono essere utili, se si farà schiacciare dagli avversari o giocherà di rimessa la vedo dura. Cmq IMO se hai i piedi buoni e sai creare superiorità (e lui ha entrambe le cose) puoi giocare a centrocampo”.

Apre all’esperimento El Shaarawy mezz’ala anche il collega ed amico Nicolò Ramella, caporedattore sport della tv locale varesina Rete 55 e grande tifoso milanista da sempre: “Semplicemente dico che è un esperimento che potrebbe risultare vincente. Può farlo. Poi sarà il campo a parlare. Ha corsa, tecnica, non può diventare incontrista, ma la squadra può adattarsi benissimo al suo nuovo ruolo. Senza dimenticare che avrebbe al suo fianco De Jong pronto a tappare eventuali buchi. Io ci credo”.

Interessante anche il punto di vista di Cristian Giacomazzi, che però secondo non considera il fatto che il Milan “non può” giocare sulle ripartenze, dato che Berlusconi non lo accetterebbe mai: “Mezz’ala sarebbe un bel esperimento. È evidente che però non fornirebbe la copertura che da un altro tipo di giocatore. Sarebbe una collocazione che però esalterebbe la sua velocità nel momento in cui il Milan dovesse basarsi sulle ripartenze. A livello di piede direi che ci siamo, forse se troverà continuità a livello fisico potrebbe essere davvero un ottimo modo per rivederlo al servizio della squadra”.
Discorso simile lo si può fare anche in relazione all’idea di Alberto Pianetti, secondo cui sarebbe “utile solo x ripartire in contropiede…x trasformarlo bisogna dargli tempi di gioco, continuità con il piede debole”.

Prima di aprire il fronte di chi si oppone a questa eventualità, ritenendola poco fattibile, cito quei – pochi, in vero – che ad El Shaarawy cambierebbero ruolo sì, ma non per metterlo mezz’ala.

Secondo Marco “ElSha può fare come Zambrotta. Partito ala, diventò terzino. Crosserebbe meglio di Abate sicuro”, che poi è un po’ anche l’opinione di DavidL: “Io lo proverei in altri ruoli. A me sarebbe piaciuto vederlo seconda punta o Zambrottizzarlo”. Della stessa opinione anche Yes_T_mæ: “a sto punto elsha proviamolo terzino destro piuttosto…”, Federico Maraviglia “posso lanciare una provocazione? Ma a ‘sto punto adattarlo direttamente a terzino al posto di Abate?” e Manuele Gusinovich “Per me se impara a fare il terzino a sinistra può diventare un giocatore di livello”.

Infine, la schiera degli scettici. Che sono veramente tanti, la netta maggioranza degli intervenuti. Riporterò quindi solo qualche opinione, non me ne voglia però chi in questo pezzo non ha avuto spazio: riportare tutto lo farebbe diventare davvero molto lungo, ma ci saranno sicuramente altre volte in cui ripeterò questo esperimento. Vi invito comunque a girare tra FB e Twitter per leggere anche quelle opinioni che qui non riesco a riportare…

Iniziamo quindi da Mat Teo, secondo cui quest’idea è in realtà solo un pretesto: “Io credo sia stato semplicemente un modo carino per dirgli inizia a cercarti qualcos’altro, che in attacco posto per te non ce n’è”.

C’è poi chi come Carlo Canton e Mino Belà cassano l’idea senza mezzi termini: “Mezz’ala è la più grande stronzata che abbia sentito negli ultimi 20 anni di calcio” dice il primo, “vorrebbero fargli fare il Bonaventura 2.0? A me pare folle”, gli fa eco il secondo”.

Entrando un po’ più nello specifico per Marco Mobilio “non credo abbia le qualità necessarie per far giostrare i compagni, e la mezz’ala deve fare anche questo. Non basta solo correre con la palla tra i piedi, bisogna anche saperla giocare nei tempi e nei modi giusti”.

Tatticamente interessante la spiegazione di Teo: “non ha le caratteristiche fisiche, tattiche di base e anche tecniche per farlo, soprattutto a livello difensivo. Da mezz’ala devi ruotare, adeguare, aiutare più punti del campo. Inoltre il suo inserimento è vincente in diagonale da esterno, anche senza palla, partendo da 15 mt avanti. Non vedo l’intelligenza tattica per farlo al centro. Per me può essere un trequartista centrale moderno, che parte al centro ma si muove ovunque”.

Secondo Antonio Intini “avrebbe bisogno di lavorare tanto tanto tanto sul gioco corto che non è nel suo repertorio”, mentre per Marco Cipo “non ha il passo, i tempi e la struttura del centrocampista”.

Scettico anche Alessandro Davani: “Io resto dell’idea che per me non ha la forza fisica per poter fare la differenza in quella zona di campo, inoltre in un 4-3-1-2 il suo lavoro difensivo dovrebbe essere enorme e, essendoci già Montolivo che pecca in fase difensiva, dubito che lui potrebbe prendersi questo enorme lavoro. Oltretutto verrebbe sprecata la sua capacità di saltare l’uomo in velocità e di accentrarsi cercando il tiro a giro”.

Lo lascerebbe giocare in posizione offensiva Mauro Atzeni: “secondo me non deve smettere di essere attaccante. A centrocampo è un altro mestiere”, Leonardo Pippa: “al di là della validità dell’idea devi recuperarlo facendogli ritrovare le cose che sapeva fare meglio, magari con qualche gol” e Marco Maioli: “Non capisco la necessità di cambiargli ruolo. Lasciamogli fare l’attaccante”.

Secondo Maicuntènt sono tre i motivi per cui El Shaarawy difficilmente riuscirà ad adattarsi al ruolo di mezz’ala: “usa solo il destro, non è forte nello stretto, non ha i tempi. Per le prime due penso sia tardi, per l’ultima credo che col duro lavoro e con un mister competente (Sinisa lo è), potrebbe acquisire quei tempi di inserimento che, vista la sua ottima velocità di base, gli permetterebbero di diventare un’ottima mezzala dinamica. Certo, il problema è: si può diventare centrocampista a 23 anni? Forse no, ma io ci spero”.

Enrico Stuerdo crede invece che El Shaarawy “ha la sua caratteristica migliore nell’esplosività nelle gambe e quindi lo scatto. Quando si trova al limite dell’area è portato a dribblare l’avversario più che a cercare il passaggio illuminante. Motivo per cui non lo vedo bene come mezz’ala (seppur offensiva) per quanto il modulo di Mihajlovic sia portato all’attacco. La mezz’ala deve sicuramente accompagnare, ma deve soprattutto essere in grado di gestire il pallone e di dialogare con il mediano per alzare la squadra di 30 metri”.

Infine, Anthony Esposito: “El Shaarawy è un giocatore molto istintivo, fa più quel che gli “passa per la testa” al momento piuttosto che seguire un qualche dettame tattico, tanto che secondo me il crollo verticale che ha avuto in questi anni è dato più da questa mancanza di lucidità che dai vari problemi fisici e personali che ha avuto. Ritengo El Shaarawy ancora troppo disordinato e umorale per fare la mezzala di qualità ad alti livelli, troppo “leggero” per occuparsi solo di quantità e ancora decisamente immaturo tatticamente per iniziare ad impostare da così indietro. Detto questo, sarei comunque curioso di assistere ad una metamorfosi così ambiziosa, oltre che felicissimo per il ragazzo, conscio però del fatto che per il sottoscritto significherebbe aver preso una cantonata clamorosa. Ma in fondo il calcio è bello anche per questo”.


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Impostosi all’attenzione di tutti grazie ad ottime prestazioni ai tempi dei suoi esordi, Davide Santon non seppe tenere lo stesso livello di rendimento avuto nelle sue prime brillantissime uscite.

Così nell’arco di qualche mese passò dall’essere giocatore nel giro della Nazionale a mediocre terzino nel Cesena, con conseguente esilio inglese.

Indubbiamente l’esperienza Oltremanica lo ha reso più forte, in primis da un punto di vista caratteriale. Così una volta vistosi chiuso e messo alle porte in quel di Newcastle upon Tyne il 24enne laterale difensivo di Portomaggiore ha accettato di tornare nella squadra che lo aveva cresciuto e lanciato nel grande calcio: l’Inter.

L’impatto con la sua nuova vecchia realtà è stato sicuramente positivo. Ad ora il ragazzo ha disputato solo sei match con la maglia Nerazzurra, ma il bilancio è sicuramente positivo.
Non un gran match contro la Fiorentina, ma in generale il suo apporto è stato tutt’altro che disprezzabile.

C’è però un grosso limite che proprio Santon pare non riuscire a superare. E che dopo averlo limitato nella sua prima esperienza Nerazzurra ed in tutto ciò che ne è seguito, evidentemente sembra essere ancora lì, non scalfito, oggi: la scarsa capacità, da terzino sinistro, di andare fino sul fondo e giocare la sfera proprio con il mancino.

La situazione classica è questa: Santon prende palla sulla sinistra, avanza riuscendo anche a saltare uno o due avversari, ma giunto all’altezza dell’area di rigore si porta la palla sul destro e rientra, per scaricarla o crossarla. Sempre.

Un canovaccio che non lo rende prevedibile. Di più. Un modus operandi classico che è facilmente studiabile, e di conseguenza poi contrastabile, dai difensori avversari.

Non puoi permetterti, più che mai nel calcio del 2015 quando le partite sono preparate fin nei minimi dettagli, di non variare mai il tuo gioco.

Non è possibile che il tuo buon potenziale – certo non da fenomeno, ma comunque nemmeno così disprezzabile sotto molti aspetti a mio avviso – venga dilapidato da questa incapacità nel variare il tuo gioco.

Sarà stato il fato, ma guarda caso quando contro la Fiorentina Santon ha deciso di affondare portandosi la palla sul sinistro per cercare il fondo ha preso controtempo il diretto avversario, che ha affondato il tackle per non farselo scappare falciandolo, con relativo calcio di punizione – corner corto guadagnato dal terzino Nerazzurro.

In tutto questo, non me la sento nemmeno di dare tutte le colpe al ragazzo. Perché gli allenatori – e non parlo tanto di Mancini, che lo sta allenando da poco – servono anche a questo: correggere gli errori ed aiutare i giocatori a superare i propri limiti.
Possibile che nessuno, in questi anni, sia ancora riuscito a portare Davide Santon ad avere un gioco più vario, quando affonda sulla sinistra?

Perché poi parliamoci chiaro: il valore medio dei terzini italiani è bassissimo. Si salva giusto Darmian, più la speranza Zappacosta. Ed in Serie A non va molto meglio, con giusto Lichtsteiner e pochi altri ad elevare un po’ la qualità nel ruolo.
Ma la realtà dei fatti è che se anche noi allarghiamo il discorso a livello mondiale non troviamo carrettate di grandi terzini.

Proprio in funzione di ciò un giocatore con la falcata e l’efficacia in dribbling e nell’affondo di Santon andrebbe sfruttato meglio. Non dico certo abbia il potenziale per diventare un “top player”. Ma per fare bene ed avere una carriera dignitosa anche a livello internazionale sono convinto di sì.

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Addio, Klas.

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Klas sbarcò in Italia quasi due decenni fa.

Di anni ne aveva 27 ed in carriera, a livello professionistico, aveva vestito le maglie del Goteborg, del Mechelen, del PSV e dello Sheffield Wednesday.

Proprio dall’Inghilterra salpò per Bari.

Nel giro della Nazionale da anni, era arrivato il momento di misurarsi con il campionato che all’epoca era probabilmente quello più bramato al mondo: la Serie A.

La scintilla, tra me e lui, scoccò subito.

Troppo innamorato di un certo tipo di giocatori per non farmi rapire da quello svedesone di centonovanta centimetri per quasi novanta chilogrammi che imperava sulla mediana dei Biancorossi.

Così dalla prima volta che giocai ad un Fantacalcio sino all’ultima in cui lui fu disponibile lo acquistai sempre. Perché certi amori travalicano le barriere della logicità e si spingono nell’intangibilità dei sentimenti, di ciò che un giocatore ti trasmette al di là del suo effettivo rendimento in campo.

Così non passava anno che non affidassi a lui le chiavi del mio centrocampo.

Certo, i campioni non mancavano. Ma uno dei punti fissi della mia squadra non poteva non essere questo vichingo forgiato nella lonsdaleite.

In Italia ci rimase sino al 2000, per poi trasferirsi a Marsiglia. Pochi mesi, ed ecco il ritorno nel Belpaese, dove chiuse la carriera.

Perché la storia sportiva di Klas Ingesson è fortemente legata al nostro paese.

57 presenze e 13 goal con la maglia dei Blågult, fu uno dei punti fermi della – potremmo dire – trionfale spedizione svedese ad USA 94.

Titolare in tutti e sette i match, infatti, contribuì fattivamente all’ottimo terzo posto finale della sua nazionale. Andando anche a realizzare un rigore nella serie consumatasi contro la Romania di Hagi. Uno scontro molto combattuto in cui lui, dall’alto della sua grandezza, andò a battere il quinto penalty della sua squadra.

Smessi i panni da calciatore nel 2001, nel 2009 arrivò la malattia che, dopo anni di combattimenti, ce lo ha portato via: mieloma multiplo.

Diventato nel frattempo allenatore, Klas Ingesson ha combattuto il suo male con la stessa vigoria che ha sempre messo in campo. Quella voglia di lottare e di vincere che lo fece diventare un idolo dei tifosi tanto a Bologna quanto, soprattutto, a Bari.

E che, ancor di più, lo fece diventare pedina inamovibile di ogni mia Fantasquadra…

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Negli ultimi mesi il futuro del calcio italiano sta catalizzando l’attenzione più di qualsiasi altra questione.

Sicuramente più delle guerre in atto a Gaza o in Ucraina, come dei tentativi di riforma portati avanti dal Governo Italiano. Ma in fondo anche più delle amichevoli estivi, finanche del calciomercato.

Negli ultimi giorni, poi, le parole inopportune di Tavecchio, uno dei due candidati ufficiali a ricoprire il ruolo di presidente della FIGC, hanno fatto addirittura il giro del mondo.

Parole.

Perché poi mi sembra che di concreto si legga e senta poco.

Proprio in queste settimane qualcuno – ad esempio Albertini, l’altro candidato, ma non solo – ha anche rilanciato la questione delle “Squadre B”. Su cui andrebbero però fatte riflessioni serie.

Non avendo alcun tipo di ruolo nel calcio italiano ho sicuramente pochi strumenti per analizzare e giudicare. Ma una pensata al riguardo me la sono fatta, e avrei piacere di condividere con voi alcuni dei motivi per cui credo sarebbe opportuno dare la possibilità alle nostre squadre professionistiche di crearsi un team satellite in cui far giocare i propri giovani.
Non solo. Vorrei anche rispondere ai principali dubbi che vengono mossi da chi non crede che le “Squadre B” sarebbero utili e, in ultimo, spiegare anche perché Serie B, Lega Pro e Serie D sono contrari a questa eventualità.

  • Partiamo da un presupposto: la “squadra B” deve essere una possibilità, certo non una imposizione.
    Del resto è evidente che ogni club deve essere lasciato libero di prendere le proprie decisioni a seconda di quella che è la propria strategia industriale, rispetto cui non ci possono essere grandi ingerenze federali.
    In questo senso ci potrebbe essere chi preferirebbe comunque creare partnership con società terze (come fatto quest’anno dall’Inter col Prato), chi prediligerebbe sparpagliare i propri giovani in vari club dello stivale (come sta facendo da anni la Juventus) e chi ancora si potrebbe accontentare di mantenere solamente una formazione Primavera.

Le “squadre B”, però, avrebbero bisogno anche di una regolamentazione speciale studiata ad hoc per loro. Ad esempio:

  • In primis bisognerebbe decidere da quale livello farle partire (direi Lega Pro, ma un’opzione potrebbe essere anche la Serie D). In secondo luogo si dovrebbe poi attestare l’impossibilità di arrivare allo stesso livello della propria “squadra madre”. Quindi un satellite di una squadra di A non potrebbe mai andare oltre la B. E verrebbe retrocesso automaticamente in caso di retrocessione del proprio club di riferimento.
  • Altra regolamentazione assolutamente necessaria riguarda l’età. Una “squadra B” che non preveda un limite di età rischierebbe infatti di diventare una sorta di “cimitero per gli elefanti”. Un club in cui, insomma, far giocare fuori rosa, giocatori ai margini della prima squadra, ecc.
    In Spagna il limite dovrebbe essere posto ai 25 anni. Volendo si potrebbe abbassare sui 23. Comunque non meno.

Un altro aspetto da considerare sicuramente è quello riguardante i costi:

  • Creare un team satellite caricherebbe di ulteriori costi una società. Perché andrebbe ad aggiungersi alle formazioni già oggi esistenti, non sarebbe un’alternativa alla Primavera (almeno, nella mia visione delle cose).
    Sono però convinto che i ritorni sia tecnici che economici che l’uso oculato ed intelligente di una “squadra B” potrebbe portare giustificherebbe l’investimento che ci sarebbe alla base.

Perché una “squadra B” dovrebbe essere una soluzione migliore rispetto ad un prestito?

  • La reputo una soluzione migliore semplicemente perché una squadra B non ha la stessa necessità di qualsiasi altro team di portare risultati sportivi. L’unico risultato cui deve puntare è la creazione di un giocatore che giochi ad un livello tale da poter essere d’aiuto alla prima squadra.
    Quindi mentre una qualsiasi squadra tenderebbe a panchinare un giovane che non dà garanzie immediate, un team satellite potrebbe puntarci, nel caso ci vedesse prospettive importanti, anche qualora i risultati non fossero buoni da subito.
    Ed è proprio giocando che un ragazzo acquisisce consapevolezza dei propri mezzi e fiducia in sé stesso. Certo non facendo panchine su panchine in Serie B o Lega Pro.

L’assenza di un traguardo sportivo a breve termine porterebbe ad uno scadimento della competitività?

  • Questo è uno dei pochi dubbi che trovo legittimi.
    Penso però altresì che in una situazione “normale” questo sia un falso problema.
    Un ragazzo di 20 anni che si trova a giocare in un team satellite in Serie B e che non dà il 101% di quello che ha in ogni partita nonostante non ci sia la necessità stringente di portare a casa i tre punti è semplicemente un professionista fallito in partenza.
    Un ragazzo di 20 anni che non capisca che la sua carriera inizia proprio da lì e che un campionato giocato ad alto livello potrebbe garantirgli chiamate e contratti importanti già dalla stagione successiva ha semplicemente sbagliato lavoro.

Altro dubbio riguarda il fatto che le “squadre B” andrebbero a togliere un posto ai club “tradizionali”

  • Altro dubbio legittimo. Ma attenzione: la Lega Pro è stata ridotta di moltissimo a causa dei tanti fallimenti. La Serie B, ad oggi, dovrebbe essere giocata a 21 squadre.
    La realtà delle cose è che un team satellite di un grande club sarebbe economicamente più sostenibile di certe squadre di provincia che investono tanto per avere risultati sportivi di livello. Se questi non arrivano, spesso falliscono.
    Per il futuro si parla già di un’ulteriore sforbiciata al numero di team professionistici. Forse prima di questo si potrebbe optare proprio per la via che porta alle “squadre B”.

In ultimo, perché le leghe minori non vogliono assolutamente nemmeno ipotizzare la creazione di questi team?

  • Semplicissimo: soldi.
    Qualche mese fa ho potuto partecipare ad un tavolo di discussione cui, tra gli altri, partecipava anche il Presidente di Lega Pro Macalli. Che al riguardo è stato chiaro: le grandi squadre vogliono far maturare i loro giovani nelle serie minori? Perfetto. Ci paghino per farlo.
    Quindi lo scenario sarebbe questo: io società X cedo in prestito il giocatore Y alle società Z, che gioca in Lega Pro. Voglio che questo sia valorizzato? Pago la società Z affinché ciò possa avvenire, magari anche con incentivi in merito al numero di presenze e alle prestazioni.
    Non sono disposto a pagare? Mi tengo il ragazzo in tribuna.
    Ora, capisco che le società minori abbiano necessità di sopravvivere, ma non si può speculare così sul futuro di un ragazzo. E dato che un esborso economico deve esserci, credo sia giusto dare la possibilità ad ogni club di scegliere quella che ritiene essere la via migliore per sé stesso.
  • Diretta conseguenza del discorso appena affrontato sopra riguarda i settori giovanili delle stesse società “minori”. Perché un Prato (come una Pro Patria, un Lecce o un Frosinone) dovrebbe limitarsi a lanciare i giovani formati da qualcun altro cercando così di speculare sopra la loro crescita?
    Se questo meccanismo venisse interrotto, o quantomeno venisse ridimensionato, anche i piccoli club sarebbero ancora più invogliati a lavorare sul proprio settore giovanile, per autoalimentarsi. Quindi oltre ad essere una soluzione buona per i giovani che militano nei settori giovanili dei nostri top club, ritengo che questa soluzione possa essere uno stimolo per un po’ tutte le nostre società, anche quelle “periferiche”.

Come detto una proposta seria, contenuta in un programma “elettorale”, andrebbe studiata ed articolata a fondo.

Ma del resto io, purtroppo, non ho la possibilità di competere con Tavecchio ed Albertini, né – di conseguenza – l’ho di poter effettuare studi particolari sulle varie soluzioni che potrebbero aiutare il nostro calcio a ripartire.

Con questo pezzo ho voluto comunque chiarire alcuni aspetti riguardanti le Squadre B. Certo, ce ne saranno sicuramente anche altri di cui sarebbe bene parlare, ma mi sembra comunque già più di quello che viene fatto normalmente…

(A margine, una piccola chiosa: è LOGICO, ma sempre meglio sottolinearlo, che le “Squadre B” non sarebbero la panacea di tutti i mali del nostro calcio, ma solo una delle tante manovre che andrebbero fatte per ridare vigore al nostro movimento.)

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Due mesi fa scrissi un pezzo (che vi invito a leggere, senza falsa modestia è ben fatto e piuttosto chiaro) in cui raccontai per filo e per segno perché il trambusto percepibile attraverso TUTTI gli organi di informazione riguardante il sorpasso portoghese ai nostri danni per quanto concerneva il ranking UEFA fosse quantomeno un tantino eccessivo.

Oggi, pur con colpevole ritardo, vorrei fare un passo in più.

Assodati quindi i dati di fatto (ripeto, non è impossibile che ci sorpassino ma è bene esprimere chiaramente che ad oggi NON l’hanno fatto e che il sorpasso resta una semplice eventualità, con una quasi certezza di contro-sorpasso un anno dopo, per altro) andiamo a valutare un po’ di altri aspetti, provando a guardare dentro la sfera e indicare quale potrebbe essere il futuro da qui ai prossimi anni.

Beh, innanzitutto credo – ma sono semplici ipotesi – che non solo il Portogallo non ci sorpasserà, ma che nei prossimi due o tre anni la forbice nel ranking andrà ad aumentare.

Questo perché la Juventus ormai ha compiuto la propria ricostruzione post Calciopoli, e pur non essendo ancora una delle squadre migliori in Europa viene da due buone stagioni a livello “individuale”, con un totale di cinquanta punti guadagnati nel ranking per club.
Un trend che dopo gli stenti del post Calciopoli, appunto, potrebbe confermare anche negli anni a venire. Pur non facesse grandi exploit, quindi, dovrebbe concorrere sempre in maniera sostanziale al nostro ranking nazionale.

Ma non solo. Il Napoli stenta a fare il salto di qualità in Europa. Quest’anno ha fatto sicuramente meno di quello che mi sarei immaginato, soprattutto in Europa League ovviamente, ma nulla fa pensare che nei prossimi anni il suo rendimento possa essere più basso di così.
Il progetto di De Laurentiis resta comunque interessante, ed il loro contributo dovrebbe esserci.

Idem dicasi per la Roma, che dopo anni di anonimato potrebbe sicuramente ben figurare in Europa già dalla prossima stagione. Anche senza vincere trofei, avere tutte le proprie rappresentati che ben si comportano vorrebbe dire quasi sicuramente, quantomeno, rafforzare il proprio quarto posto. E andare, man mano, a crescere nel ranking. Perché se è vero che l’anno prossimo perderemo i punti del Triplete, poi per due stagioni andremmo a perdere un totale di 22 punti. Pochi, se pensiamo che la sola Spagna li ha totalizzati quest’anno (e potrebbe crescere ancora di qualcosina, vincendo le due finali).
Tornando ai Giallorossi, il loro progetto sembra avere margini di crescita. E’ vero che il proprio ranking basso vorrà quasi sicuramente dire girone difficile in Champions… ma paradossalmente un terzo posto ed eventuale buone prestazioni in Europa League garantirebbero un discreto bottino di punti, a noi come nazione.

Poi va sicuramente citata l’Inter. Una squadra che col nuovo Presidente si è data orizzonti nuovi. Pensare ad un nuovo Triplete è prematuro, ma la prossima Europa League è alla portata, e con un po’ di impegno non si vede perché una squadra del genere non possa compiere un buon cammino.

Infine, la Fiorentina. Per cui vale un discorso simile a quello fatto per la Roma.
I Viola partono sempre, giustamente, con l’obiettivo di qualificarsi alla Champions. Ma, oggi come oggi, sembrano fatti su misura per l’Europa League. Una competizione che se affrontata col giusto spirito potrebbe tranquillamente vederli passare molti turni, contribuendo così in maniera importante al ranking.

Logico, in questo discorso vanno poi inserite le varie squadre che di volta in volta giocano in Europa. Ci sarebbe il Milan, la squadra italiana col ranking per club migliore.
Sarebbe una sicurezza, non fosse il periodo delicato che sta passando. In prospettiva, però, anche loro dovrebbero tornare su certi livelli…

Insomma, una nazione come il Portogallo può arrivare ad insidiare l’Italia solo grazie ad exploit particolari tipo quelli del 2011. Che però, onestamente, non sono facilmente ripetibili.

Paradossalmente, anzi, i lusitani farebbero forse bene a guardarsi alle spalle. Perché se è vero che il Benfica è una delle squadre più interessanti degli ultimi anni, è altrettanto vero che il Porto qualcosina a perso. E che, in generale, non hanno lo stesso livello medio di una Italia.

Non solo.

La Francia può vantare una squadra, il PSG, che nei prossimi anni promette di essere tra le grandi protagoniste d’Europa. A questa, nel medio periodo, si aggiungerà il Monaco, altra squadra molto danarosa che vorrà comunque dire la sua, potenzialmente aumentando l’impatto francese sul ranking.
E, ancora, dall’anno prossimo ci sarà anche l’Olympique Marsiglia che affronterà con nuova linfa le competizioni europee, forte dell’arrivo di quel genio mattarello che è Marcelo Bielsa.

Certo, negli ultimi cinque anni la Francia ha sempre guadagnato meno punti del Portogallo (tranne l’anno scorso, pari). Però quello Transalpino è un movimento che, tutto fa pensare, avrà una buona crescita nei prossimi anni. E se non l’Italia, chissà che non vada ad insidiare il quinto posto del Portogallo…

E noi?

Stante i discorsi di prima, ad oggi credo che possiamo accontentarci solo di difendere il nostro quarto posto. Nulla di più.

Perché i movimenti spagnolo (inarrivabile), inglese e tedesco sono troppo lontani per poter essere agganciati a breve.

Però chissà che la stagione di quest’anno, in cui siamo comunque arrivati a meno di un punto dai tedeschi (che scontano il fatto di dover dividere il proprio punteggio per sette, avendo una partecipante alle coppe in più di noi), non sia un piccolo segnale di ripresa.

In realtà, credo sia solo un caso. O meglio, dopo gli ottimi risultati dell’anno scorso (massimo punteggio d’Europa) la Germania non ha saputo ripetersi, ma era anche difficile. Eppure se nel prossimo paio d’anni torneranno a fare bene in Europa League e si confermeranno con Bayern e Borussia ai vertici della Champions, potrebbero addirittura arrivare ad attentare al secondo posto inglese.

Ma tutti questi, sinceramente, sono discorsi difficili da fare. Impossibile prevedere cosa sarà l’anno prossimo, figuriamoci estendere il concetto a due o tre stagioni.

Per chiudere, quindi, l’Italia deve aver chiara in testa una sola cosa: testa bassa e tanto lavoro. Il gap con i primi tre campionati d’Europa è palese a tutti, e non solo – non tanto – da un punto di vista calcistico.

Strutture, marketing, organizzazione… il calcio italiano, riferimento globale per anni, si è evidentemente seduto sugli allori. E, piano piano, si è fatto superare da concorrenti più affamati e decisi.

Come dicevo prima, però, abbiamo club che pur non ricoprendo oggi, e non avendo possibilità di ricoprire nel breve-medio periodo, posizioni apicali a livello europeo possono garantirci comunque, quantomeno, di rimanere al quarto posto. Che rispetto al quinto non garantisce nulla di più, se non il prestigio.

Se poi tutti i club, e Lega e FIGC prima di loro, lavorassero seriamente per sistemare tutti quei “bug” del nostro sistema (dagli stadi scadenti alla violenza che regna dentro e intorno agli stessi, fino a un ritmo scadente ed una qualità tecnica non più all’altezza del nostro glorioso passato), ecco che tra qualche anno potrei trovarmi a scrivere un pezzo simile a questo, ma inerente a quello che potrebbe essere un nostro sorpasso su chi oggi ci precede in classifica…

P.S.
In merito ai problemi del nostro calcio, ben emersi anche dall’ultimo Mondiale, ho fatto un video (piuttosto lungo, ma da dire ce ne sarebbe per molte ore ancora). Vi invito quindi a guardarlo e ad iscrivervi al mio canale Youtube, per restare sempre aggiornati su analisi tattiche e non solo.

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Lo ricordo come fosse oggi. Era una sera di giugno di cinque anni fa. La mia vita era cambiata da poco, ma il calcio continuava ad essere la mia passione principe.

Al termine di una partitella, fuori dalla palestra delle ex medie del mio paese, un amico mi propone di creare una squadra di calcio a sette per la stagione che sarebbe iniziata da lì a pochi mesi. E di rendermi l’allenatore di questa squadra.

Proposta accettata immediatamente e senza il minimo tentennamento. E fu in quel momento, di fatto, che si costituirono i Venegono Metrostars.

Da lì partì un’opera di costruzione della rosa che ci vide presentarci ai nastri di partenza di quella stagione con tredici giocatori tesserati. Non sempre, però, tutte le ciambelle vengono col buco, e tra infortuni di lungo corso, scarsa voglia di qualcuno e problemi di vario genere quella stagione si chiuse, sportivamente parlando, in maniera piuttosto mesta.

Da allora è passata tantissima acqua sotto i ponti. Tante cose sono cambiate. In primis, da tempo non sono più il mister, ma solo il “fondatore” di questa squadra.

Che giusto nell’ultimo week-end, con un facile 8 a 1 contro avversari di retaggio sicuramente inferiore, si è laureata campione del proprio campionato.

E’ stata una cavalcata importante, che io ho vissuto solo a spizzichi e bocconi, ma che mi ha riempito di orgoglio.

Perché è come quando metti al mondo una creatura. Fragile. Ma piano piano questa cresce. Magari si allontana da te, esce di casa, cerca il proprio posto nel mondo. E alla fine quando lo trova… non puoi che esserne orgoglioso.

E così, dopo cinque anni, si compie il mio sogno. La squadra che creai sulle cenere dei Ramblas FC ha ripercorso proprio quelle orme, riportando, oggi come allora, Venegono sulla vetta di un campionato.

Così ai numeri funambolici di quel campione mancato che era Lore si è sostituita la concretezza del Brenz, capace di mettere a segno ben 58 reti nell’arco di una ventina di partite.

Ma lui è stato semplicemente il diamante di una squadra che ha corso e lottato, attraverso mille difficoltà, per raggiungere il tanto agognato obiettivo.

I complimenti vanno estesi a tutti, nessuno escluso.

Gnaccia, improvvisatosi portiere per l’occasione, che tra qualche alto e qualche basso ha comunque condotto in porto una stagione più che dignitosa, contribuendo in maniera fattiva alla vittoria finale (anzi, prima ancora alla composizione di una rosa che avrebbe potuto non esserci nemmeno, senza di lui).

A Baga, che nonostante verso fine campionato, per cause di forza maggiore, abbia tirato un po’ i remi in barca, ha dimostrato ancora una volta di essere difensore a tratti dominante a questi livelli.

A Moltra, che nonostante continui problemi al ginocchio si è sempre fatto trovare pronto quando è servito, mostrando come sempre grande concretezza e doti di leadership.

A Fabio, che con grande continuità ha contribuito a blindare la difesa. L’uomo giusto al posto giusto.

A Gianpi, che se pur a metà stagione ha dovuto mollare per andare in Australia ha contribuito a far decollare la stagione.

A Kap, che finalmente, dopo anni e anni di tentativi, è riuscito a centrare il suo sogno. Vincere un campionato da capitano. E che fosse coi Metrostars era scritto nel destino.

A Nitz, uno dei primissimi a fare parte della rosa dei Metrostars nell’anno zero. Perché di questa famiglia ha sempre fatto parte.

A Toti, che ha portato esperienza e malizia, mettendosi sempre al servizio della squadra e del mister.

A Ricky, non sempre continuo, ma cuore Metrostars. E soprattutto ha avuto il grande merito di esserci nel momento del bisogno massimo. Perché l’ultima gara, a discapito di quanto dice il risultato, è stata tirata e nervosa per quasi un tempo. Proprio una sua magia l’ha sbloccata. Sbloccando di fatto psicologicamente i propri compagni, che hanno quindi dato il via allo show.

A Gio, genio e sregolatezza per eccellenza. Peccato sia mancato il goal nell’ultima di campionato. Sarebbe stato giusto.

A Simo “nonèuncalciatore” Noto, panzer di sfondamento di un attacco senza di lui leggerino. Va’, ed insegna ai catalani a non passare un pallone!

A Mau, che anche se ha ceduto prima del tempo è e resterà per sempre un Metrostars.

A Salva, che con me fondò i Metrostars. Era ora che ci arrivassimo, in vetta.

E infine, soprattutto, ad Andre. Cuore Ramblas (entrambi giocammo l’ultima partita di quella squadra tanto gloriosa) prima, Metrostars della prima ora poi. Un’annata difficile per lui. Trenta soli minuti giocati, giusto l’ultima di campionato. In tempo per dare un assaggio a tutti della tua classe, e condire il ritorno in campo con il goal.

E ovviamente, prima di chiudere, anche al Mister e a Ciccio “ècalabresepurelui” Mirage, senza cui tutto ciò non sarebbe stato possibile.

Non so cosa riserverà il futuro a questi Metrostars. Probabilmente, come fu per i Ramblas, le vittorie lasceranno spazio a momenti meno fulgidi. E col tempo che passa inesorabile e cambia le vite di ciascuno, la pietra tombale potrebbe essere definitiva.

Però chi è Metrostars lo resta per tutta la vita. E così questa vittoria oltre che loro, che l’hanno guadagnata sul campo, è anche mia, di Jimbo, Jean, Palio, Memmi, Fede, Baga, Berto, ecc, ecc, ecc. Ovvero di tutti quelli che di qui sono passati, e che come noi Metrostars lo saranno per sempre.

Per aspera ad astra. Forza Metrostars!

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Quello del “ranking UEFA” è diventato ormai uno spauracchio che colpisce tutti gli sportivi calciofili italiani.

Se una volta nei baretti di paese si sentiva parlare di goal e torti arbitrali, in questi ultimi anni, sempre più, sta imponendosi anche questo argomento.

Peccato che, come al solito, l’ignoranza – in senso letterale, senza voler insultare nessuno – sia tanta. Anche, e questa è la cosa più triste, tra i giornalisti.

Proviamo allora a fare un po’ di chiarezza, proprio parlando di quel tanto dibattuto “ranking per nazioni” che decide, di fatto, il numero di squadre che ogni paese qualificherà alle competizioni europee.

Iniziamo, innanzitutto, con lo spiegare COME i punteggi vengano attribuiti. Perché è da qui che parte tutto.

– Una vittoria vale 2 punti.
– Un pareggio vale 1 punto.
– L’accesso alla fase a gironi della Champions League vale 4 punti.
– La qualificazione agli ottavi di Champions vale 5 punti.
– Il raggiungimento di quarti, semifinali e finale di entrambe le coppe vale 1 punto per turno.

Per determinare il punteggio finale, però, non si sommano semplicemente tutti i punti raccolti dai vari club. Il punteggio totale, infatti, va diviso per il numero di club della singola nazione che partecipano alle competizioni quell’anno (esempio pratico: per l’Italia il punteggio totale va diviso per 6).

Altro fattore da sottolineare, in quest’ottica di semplice regolamento, riguarda il fatto che a fare fede, quindi a decidere le squadre qualificate, è il ranking delineato a fine stagione, posto che nel corso della stessa questo è soggetto a vari cambiamenti e non dà giudizi definitivi.

Proprio quest’ultima considerazione mi porta a sfatare il “mito” che si è creato in questi giorni: NO, il Portogallo NON ci ha superati.

Chi non ci credesse può semplicemente collegarsi sul sito ufficiale dell’UEFA, alla pagina inerente il ranking, e guardare da sé:

La cosa è semplice: tra Italia e Portogallo ci sono ancora quasi cinque punti di differenza, che il Benfica, pur vincendo eventualmente la finale di Europa League (e quindi guadagnando altri due punti, che però come detto andrebbero poi divisi per sei) non potrebbe colmare.

Allora perché in molti, anche giornali e giornalisti blasonati, hanno scritto titoloni a nove colonne dicendo che il calcio italiano sta cadendo sempre più in basso, tanto da essere diventato il quinto in Europa?

Semplice: questi, probabilmente per racimolare qualche click e qualche condivisione in più, hanno sovvertito uno dei punti fondamentali di cui parlavamo prima, ovvero sia il fatto che a fare fede e a contare siano i ranking di fine anno, non quelli, monchi, di inizio stagione.

Mi spiego meglio.

Il ranking qua sopra definirà il numero di squadre qualificate a Champions ed Europa League. Con lo scattare del primo luglio, diciamo giornata in cui inizia più o meno ufficialmente la nuova stagione, lo stesso verrà però modificato profondamente.

Costruito su base quinquennale, va da sé che ad ogni inizio stagione vengano tolti i punteggi di cinque anni prima (ovvero sia, nel nostro caso, della stagione 2009/2010) per far spazio a quelli dell’anno che va a cominciare.

Logico che il primo luglio, a bocce assolutamente fermi, i punteggi della stagione siano a 0, producendo un ranking di fatto monco, appunto, che verte su quattro sole stagioni.

Ecco, come mostra questa grafica:

il ranking aggiornato al primo luglio, ovvero senza la stagione in cui l’Inter di Mourinho completò il Triplete portando sicuramente punti importanti alla causa italiana, vedrà quindi il Portogallo davanti all’Italia.

Sorpasso, quindi!

No. Non si può parlare di sorpasso per un semplice motivo: il sorpasso sarà solo virtuale e diverrà concreto solamente nel momento in cui – se accadrà – il Portogallo ci sarà davanti anche alla fine della prossima stagione.

Se si confermasse il trend delle ultime due stagioni, per altro, ecco che il sorpasso non arriverebbe: come potete notare proprio da questa grafica, infatti, nell’ultimo paio di anni i portoghesi hanno sempre raccolto meno punti di noi. Quasi tre nel 2013, più di quattro e mezzo oggi.

Presto detto, quindi, che se i risultati delle due nazioni (e badate bene, il Portogallo ha raccolto meno di noi nonostante il Benfica sia arrivato in finale di Europa League, per altro eliminando una italiana) si confermeranno su questo livello la classifica finale dell’anno prossimo ci vedrà avanti di almeno due, se non tre punti netti.

E poi?

Beh, sempre osservando questa grafica è chiaro quanto accadrà ai portoghesi: senza nuovi exploit tra due stagioni andranno a perdere i punti guadagnati nel 2011, quella delle tre lusitane in semifinale di Europa League, con il Porto vincitore sul Braga all’Aviva Stadium, nella finalissima.

Quell’anno, infatti, i portoghesi fecero segnare la miglior performance europea in assoluto, non battendo – sulla singola stagione – solo noi, ma anche i mostri sacri spagnoli e inglesi (pur di decimali) oltre che i tedeschi.

Insomma, sfatiamo questo mito del sorpasso portoghese: è una possibile eventualità, per altro oggi abbastanza improbabile. Nulla di più.

Poi certo, se l’anno prossimo tutte le nostre rappresentanti dovessero fallire il discorso sarà diverso. Chiaro che se il Napoli dovesse fallire nei playoff di accesso alla Champions e, di lì in poi, un po’ tutte le squadre dovessero raccogliere risultati negativi, ecco che il sorpasso potrebbe concretizzarsi.

Però, dati alla mano, il grande baccano fatto intorno alla cosa fino ad oggi significa poco.

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Ho una sensazione. Che potrebbe essere sbagliata, per carità, ma mi sinistramente concreta: Carlo Ancelotti è un allenatore tutto sommato sottovalutato.

Intendiamoci, non dal sottoscritto. Ma l’impressione che in molti non riconoscano il vero valore di questo allenatore c’è, ed è pure forte.

Nel tempo su di lui ho letto e mi è stato detto di tutto: che non fosse un grande allenatore, che non faccia giocare bene le sue squadre, che sia un “mollo”… fino ad arrivare a stasera, quando qualcuno mi ha risposto dicendomi che con una coppia da 200 milioni come Ronaldo e Bale è facile vincere (e per l’amor di Dio, sicuramente aiuta… ma sono i discorsi che si fanno sempre e che si sono spesi in passato anche per Guardiola, Mourinho, ecc).

Eppure mister Carlo Ancelotti ha una carriera ed una bacheca da fare invidia.

Smesso di giocare iniziò come vice di Sacchi in Nazionale. Quella Nazionale che, come molti ricorderanno, si classificò al secondo posto nei Mondiali americani.

Al primo anno da “titolare”, sulla panchina della Reggiana, fece subito capire di che pasta era fatto: quarto posto e relativa promozione in Serie A.

Un po’ tutti i dirigenti d’Italia hanno però già capito che Ancelotti ha la stoffa del grande allenatore. Così se lo accaparra subito il Parma. Alla seconda stagione da allenatore centra subito il secondo posto. In quella successiva arriva invece quinto, disputando comunque la sua prima Champions League.

Si capisce comunque che è già pronto per un grande club.

Dopo due anni di Parma si prende una pausa, probabilmente in attesa della grande occasione. Che arriva puntualmente nel febbraio del 1999, quando la Juventus caccia Lippi ed affida proprio a lui la panchina. La situazione in campionato risulta irrimediabile, in Champions invece sfiora la finale fermandosi solo contro il Manchester United poi – rocambolescamente – campione.

Passa quindi due stagioni complete a Torino, raccogliendo, nel complesso, il maggior numero dei punti in Serie A in quel biennio. Il tutto però non gli basta a vincere nulla, se non una Coppa Intertoto. In campionato arrivano infatti prima la beffa di Perugia, col titolo che finisce alla Lazio, poi il secondo posto ai danni della Roma, che ne sancisce definitivamente il divorzio da un ambiente con cui Carlo sembrò comunque non legare tantissimo.

Così nel novembre del 2001 altro ingaggio in corsa, questa volta al Milan. Subentra a Terim e a fine stagione suggella un quarto posto che vale i preliminari di Champions. Coppa poi vinta l’anno successivo proprio contro la sua ex Juve. Stagione questa che verrà ricordata anche per la definitiva consacrazione di Pirlo a regista davanti alla difesa, oltre che per la vittoria della Coppa Italia.

In sette anni e mezzo di Milan Ancelotti vinse quindi un campionato, una Coppa Italia, una Supercoppa Italiana, due Champions League, due Supercoppe Europee ed una Intercontinentale, costruendo per altro una delle migliori squadre viste in quel periodo a livello globale (cosa di cui molti si sono dimenticati).

Il primo giugno del 2009 sancisce quindi una svolta nella vita professionale di Ancelotti, che sbarca al Chelsea. Qui nel giro di due anni centra un primo ed un secondo posto, vincendo anche una Community Shield ed una sempre prestigiosissima FA Cup.

Il 30 dicembre 2011 prende quindi il posto di Kombouaré sulla panchina del ricchissimo PSG. Perde sì il primo campionato, a discapito del sorprendentissimo Montpellier, ma vince il secondo. Certo, impresa banale, volendo. Ma nel calcio non c’è nulla di scontato.

Forse proprio il suo passaggio in Francia, con qualche chiaro scuro, rinfocola gli animi di chi non ha mai ben digerito la sua “statura”, e così le critiche aumentano e si legge qualche “allenatore finito” qua e là.

A riprova di questo ecco il suo passaggio, nel giugno scorso, al Real Madrid. Che dopo tre semifinali consecutive ha bisogno di sfatare questo psicodramma. Potendo, fosse possibile, arrivare alla “Decima” Coppa dei Campioni della propria storia.

E beh, l’impatto è subito devastante.

Ancelotti mette a tacere tutti (tranne quelli che per giustificare le loro idee parlano dei campioni a disposizione, ma del resto con delle pippe a pedali non ci vincerebbe nemmeno un Santo) ed estrae dal cilindro una stagione con i controfiocchi.

Intendiamoci, scrivo questo pezzo che tutto è ancora in gioco. Ancelotti potrebbe centrare subito un magnifico Triplete come, invece, chiudere con la sola Coppa del Re in tasca. Però la sua stagione non può che considerarsi positivissima già oggi.

Giusto per curiosità mi sono andato a rivedere un po’ l’andamento degli ultimi mister prima di lui alla loro prima stagione alla Casa Blanca. Condivido quindi con voi quanto ne è emerso, giusto per provare a fare una sorta di parallelo con quanto sta riuscendo ad Ancelotti.

Nel 1996/1997 Capello sbarcò a Madrid per aprire un ciclo. Vinse la Liga ed uscì agli ottavi di Coppa del Re. Ciò non bastò però a riconfermarlo: troppo scarno di spettacolo il suo gioco per poter essere gradito alla platea dal Bernabeu.

Il suo posto fu quindi preso da Jupp Heynckes, che portò subito in dote la vittoria della Champions League (e della Supercoppa di Spagna). In campionato però il Real finì quarto, uscendo ancora una volta agli ottavi di Coppa del Re. Nemmeno lui fu confermato.

Il 1998 vide cadere la scelta su quel volpone di Hiddink, che venne però esonerato. Al suo posto finì Toschak, capace di saltare nella prima metà della stagione successiva.

Qui, l’arrivo di Del Bosque. Che nel suo primo pezzo di esperienza trascinò la squadra fino a centrare la Champions. In Spagna però le cose andarono male, con i quarti di coppa ed un misero quinto posto nella Liga.

Un bottino anche peggiore a quello di Heynckes, che gli valse però la conferma. Così alla prima stagione disputata per intero Del Bosque vinse sì la Liga, ma perse le finali di Supercoppa Europea e di Intercontinentale, fermandosi al primo turno di Coppa del Re e venendo eliminato nelle semifinali di Champions.

Per trovare un nuovo esordiente su questa panchina dobbiamo quindi spingerci al 2003, quando il timone passò nelle mani di Queiroz. Il quale vinse la Supercoppa di Spagna. E basta. Battuto in finale di Coppa del Re, fuori ai quarti di Champions, quarto in campionato.

La stagione successiva vide quindi alternarsi tre allenatori: saltati Camacho e Remon la stagione fu condotta in porto da Luxemburgo, a sua volta esonerato dopo quattordici giornate del campionato successivo.

Nel 2006 nuova “prima”, in qualche modo, di Capello. Che a dieci anni di distanza trovò una squadra piuttosto diversa rispetto a quella che lasciò alla fine degli anni novanta. Nonostante questo si confermò campione della Liga, uscendo però agli ottavi sia nella coppa nazionale che in Champions.

Stagione bissata perfettamente da Schuster l’anno successivo, con in più, però, l’aggravante di aver perso la Supercoppa nazionale.

Nella stagione 2008/2009 sbarcò quindi a Madrid, ma solo a partire dalla decima giornata, Juande Ramos: secondo nella Liga, fuori agli ottavi di Champions e ai sedicesimi di Coppa del Re. Esattamente il bottino raggranellato da Pellegrini la stagione successiva.

Nel 2010, quindi, lo sbarco dell’Alieno Mourinho. Che al suo primo anno non fece né bene né male. Evitando però una stagione da zeru tituli solo grazie alla coppa spagnola, con la squadra fermata al secondo posto in campionato ed in semifinale nella massima competizione europea.

E Ancelotti? Come detto dopo aver messo in bacheca la Coppa del Re eccolo arrivare in finale di Champions (risultato che mancava da una dozzina d’anni) e a giocarsi la Liga con Atletico Madrid e Barcellona. Ricordo infatti che il Real si trova al terzo posto a sei punti dai cugini, ma con una partita in più da disputare. Virtualmente, quindi, l’Atletico decide del proprio futuro. Ma l’aggancio in vetta è lontano un solo passo falso compiuto dai Colchoneros…

Insomma, difficile forse che Ancelotti riesca a centrare un Triplete che avrebbe davvero un sapore storico. Però altrettanto vero e concreto che la stagione compiuta dal mister di Reggiolo e dal suo Real è qualcosa comunque di notevolissimo.

Da un punto di vista del gioco, poi, non si può forse dire che il Madrid sia la squadra più spettacolare al mondo. Ma il suo gioco, sicuramente abbastanza essenziale, è comunque un buon mix di difensivismo e fase offensiva. Non un puro e semplice Catenaccio.

Certo, il suo Milan, fatto da grandi palleggiatori, era capace di ben altro. Ma del resto anche quel meccanismo venne assemblato col tempo. E forse chissà, i giocatori oggi a sua disposizione non gli daranno nemmeno mai la possibilità di ricostruire un gioco corale così sopraffino come fu in Rossonero.

Molto più individualista, questo Real ha comunque i tratti somatici della grande squadra. E l’eventuale “Decima” potrebbe suggellarlo, andando ancora una volta, se mai ce ne fosse bisogno, a zittire e smentire i soliti “criticoni”…

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